martedì 19 maggio 2015

Poteva anche essere


La nostalgia di “Quel che poteva essere, ma non è stato”, ti tende la peggiore delle imboscate. Perché “Quel che poteva essere” ha del potenziale inespresso così alto che è capace di paralizzare, paradossalmente, ogni tipo di agire. “Quel che poteva essere” è subdolo, paralizzante, inzuppato della melma del rimpianto. Specialmente in amore. In amore, le relazioni terminate con una fine subita a collo torto, spalancano spesso le porte a tutta una serie di “avremmo potuto avere” avremmo potuto fare”, “avrebbe potuto essere”. E giù, in particolar modo noi donne, a trovare adolescenziali scuse a comportamenti meschini, giustificazioni, discolpe, scusanti, che non hanno alcuna attenuante, se non la bruttezza di certe persone.

Quanto sarebbe, invece, più semplice, meno doloroso e più chiaro per tutti, comprendere che “Non poteva essere nient’altro, altrimenti lo sarebbe stato”?

mercoledì 6 maggio 2015

I giovani "senza"


Ho partecipato, in veste di giudice, ad una competizione di laboratori di impresa, di comunicazione e di innovazione tecnologica, realizzati dagli studenti delle scuole superiori del territorio umbro e laziale che si sono sfidati per guadagnare l’accesso alla fase nazionale della competizione la Fiera locale dei Laboratori Students Lab, organizzata da una Associazione no profit - Students Lab, insieme con un partner tecnico IGS srl impresa sociale, con il patrocinio del Comune, con lo scopo di diffondere la cultura di impresa, promuovere le attività, i prodotti e i servizi realizzati dagli studenti delle scuole e delle università coinvolti. E, ho scoperto un mondo.

Il mondo di quella generazione più colpita dalla crisi, bistrattata dagli adulti, maltrattata dai politici che possiede, invece, un potenziale esplosivo. Abbiamo, infatti, premiato dei ragazzi con delle idee incredibili, capaci di funzionare davvero e di avere un futuro. Mi sono ritrovata a vedere in quei giovani volti, quello che forse, sarà, anche il volto di mio figlio. Volti umiliati dall’acne, corpi non proprio inodori, con tanta, tanta energia che cerca solo un canale in cui immettersi.

Riporto la lettera di una ragazza, pubblicata su DRepubblica, perché credo che questi ragazzi abbiano diritto al loro futuro. Molti della mia generazione, quel futuro lo hanno atteso, rincorso o solo sognato. Da madre, vorrei che qualcuno, un giorno, credesse, quanto me, a mio figlio.

Mi chiamo Marta, ho 19 anni e frequento l’ultimo anno di liceo classico. Sono figlia della crisi economica, della disoccupazione, dell’instabilità politica, della dipendenza da Internet. Faccio parte di quella generazione cresciuta a Pokemon, con le videocassette, con il Game boy, con le Big babol, con Messanger. Siamo la generazione dei “senza”: giovani senza ambizioni, senza futuro, senza lavoro. Dicono che siamo maleducati, pigri, viziati, privi di valori. Nel 2007 il ministro dell’economia Padoa-Schioppa definì i giovani “bamboccioni”, il viceministro al welfare Michel Martone chiamò “sfigati” gli studenti che si laureano fuori corso, la ministra Cancellieri se la prese con i giovani “mammoni” che vogliono “il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà”, quel posto fisso definito “un’illusione” dalla Fornero e una cosa “monotona” da Monti. Miei coetanei, diciamo a loro, tutti assieme: ce la possiamo fare, possiamo farvi cambiare idea!

Perché Alessandro Magno a 23 anni aveva conquistato metà del mondo allora conosciuto, Leopardi a 21 scrisse l’Infinito, Mozart a 13 suonava davanti a imperatori e Papi, Sergei Brin e Larry Page a 23 fondavano Google e aveva la stessa età Mark Zuckerberg quando annunciò il lancio su face book. Oltre a questi nomi ci sono anche Adriana ed Enrica, siciliane, 50 anni in due, che stanno sviluppando nanotecnologie per ricavare tessuti dalle bucce degli agrumi, Filippo e Marco, due giovanissimi che hanno messo in piedi delle librerie-baite nel parco nazionale della Val Grande, Raul, 20 anni napoletano, che ha creato insieme alla sorella una sturt-up per comparare i prezzi dei servizi di trasporto, e Monica, studentessa universitaria che ha fondato un’impresa per aiutare le famiglie che cercano baysitter.

Di ragazzi come questi ce ne sono tantissimi, e dovremo alzare la voce per dire che il futuro esiste perché esistiamo noi. Mario Calabresi scrive: “Chi predica l’entusiasmo viene guardato con sospetto perché rompe il fronte del malumore, ma rischia anche di dare coraggio, e questo è un rischio che vale la pena correre.”

 

 

lunedì 4 maggio 2015

Amare il marito più dei figli- un post lungo


Nel 2005 Ayelet Waldman sulle pagine del New York Times scrisse che amava suo marito più dei suoi figli, dichiarazione che le costò una valanga di critiche e riuscì ad alimentare un dibattito feroce, ancora attuale, recentemente ripreso da Amber Dotysu   YourTango che tutt’oggi riesce ad accendere l’ira funesta della maggior parte delle madri italiane e no. Posto che, siamo tutte concordi, credo, nell’affermare che, sia meglio per un bambino vivere in una famiglia dove i genitori si amano piuttosto che in una famiglia dove i genitori si sopportano, c’è in questa affermazione qualcosa che mi irrigidisce, mi mette sulla difensiva e istintivamente mi dà fastidio. E, forse, la ragione va proprio cercata in quell’”istintivamente”. Ma andiamo per gradi.

“Se una buona madre è una che ama il suo bambino più di chiunque altro al mondo - scriveva nell’articolo la Walman- io non sono una buona madre. Difatti sono una cattiva madre. Amo mio marito più dei miei figli. Non potevo credere di essere odiata da così tante persone », ricorda. La Ayelet è stata considerata, come racconta oggi, «un caso di follia, una minaccia, una donna cui dovrebbe essere tolta la custodia dei figli». L’autrice e attivista è madre di 4 figli, e moglie innamorata in maniera «vitale e persino torrida» dello scrittore Michael Chabon, ha scritto un libro, un pamphlet divertente intitolato Bad Mother, ovvero “crimini materni, calamità minori e occasionali momenti di grazia di una mamma cattiva”, pubblicato negli Usa da Doubleday. Una risposta esplicita alle critiche? «Sì, proprio così –spiega la Waldman – volete vedere chi è e cosa fa una cattiva madre? Adesso ve lo spiego io!». Una provocazione, allora? «Guardi, la mia famosa frase è stata fraintesa - in quello scritto mi chiedevo come mai tante donne, tra quelle che conoscevo, non avessero più rapporti sessuali con i mariti, al contrario di me. La mia tesi era che avessero spostato la passione verso i figli. La libido aveva lasciato il posto al desiderio materno, e questo faceva di loro delle buone madri. Ne concludevo che forse io non ero una buona madre, continuando ad amare mio marito con passione».
«Mi rendo conto, e forse le madri italiane non lo accetteranno del tutto, visto che amano i loro figli non solo più dei mariti, ma addirittura più di Dio!». I peggiori nemici delle mamme sono le altre mamme. Osservatrici implacabili, in attesa di un passo falso dell’altra per attivare l’allarme. Perché? «Sono (siamo) terribilmente insicure e stressate. Si sentono giudicate (come succede anche a me) e diventano intolleranti e punitive prima di tutto verso se stesse. Mi sono chiesta molte volte da dove venisse l’ansia materna. Ne ho sofferto intensamente quando presi la decisione di stare a casa dal lavoro per dedicarmi alla famiglia. Ricordo che pensai si trattasse di risentimento, e di aver capito in seguito come invece fosse uno stato vicino alla disperazione ». Una
“brava mamma” è sempre allegra, non si lamenta mai, gioca con i suoi figli (che indossano sempre vestiti puliti), prepara una prima colazione sana, è attiva nella comunità e la sera non è mai stanca per il sesso”.

La Dotysu, poi, sulla stessa linea dell’altra, racconta:” ho imparato un'importante lezione: mio marito deve sempre avere la priorità sui figli. Non mi fraintendete, amo i miei ragazzi e farei qualunque cosa per loro. Ma amo di più mio marito”. Entrambe le scrittrici sono convinte che se ci si impegna seriamente per mantenere viva, appassionata e sana la propria relazione di coppia ne gioverà l’intera famiglia e si educheranno i figli all’amore, al rispetto per il partner. Insomma, si darà un esempio chiaro e concreto di quali sono i propri valori.

La Aylet afferma anche che, la maggior parte delle madri segue dei modelli sociali imposti, peraltro irraggiungibili, offerti da una cultura che vuole una madre quasi perfetta, anche se spesso la realtà non risponderebbe a questi esempi. Di qui, scaturirebbe una certa ansia da prestazione che ci renderebbe tutte nevrotiche e poco inclini alla cura del compagno, ai bisogni di coppia, al piacere per il sesso. Presenta le madri come donne immolate al sacrificio che antepongono il benessere dei figli rispetto al proprio e a quello della coppia stessa, affermando che, il principio secondo cui, un buon genitore è colui che sacrifica tutto per la felicità dei figli, non faccia per lei.

IO mi chiedo, allora, un buon genitore è colui che ama il proprio compagno/a più del proprio figlio? O meglio, è un buon genitore colui che ragiona in termini di maggiore o minore amore? O tutta questa storia  è solo una enorme sciocchezza, essendoci al mondo, e viva Dio, delle variabili infinite di madri e di padri?

Condivido, senza ombra di dubbio che sia giusto impegnarsi, quotidianamente, nei confronti del proprio compagno, che sia giusto allontanare la noia, che sia giusto investire in modo costruttivo sulla relazione coniugale, senza ritenere i figli proprietà esclusiva e prolungamento della propria persona. Ritengo, sacrosanto il diritto dei figli all’emancipazione, nelle sue più svariate declinazioni, il loro a essere amati nella “giusta” maniera, come il diritto sacrosanto del “compagno” a non essere dimenticato, abbandonato, trascurato. Cosa che, spesso, richiede acrobazie sentimetali proprie del miglior funambolo. Ma, l’amore che provo nei confronti di mio figlio è qualcosa di totalmente diverso rispetto a quello che provo nei confronti di mio marito. E non si tratta di amare di più l’uno e meno l’altro, si tratta, invece, di amarli in modo “diverso”. L’amore si costruisce, sempre. Che sia amore filiale o amore relazionale. Ma c’è del viscerale, una profondità antica e interiore nella messa al mondo di un figlio che ha una portata infinita, rispetto a qualunque altro atto creativo. La costruzione di un amore, che avvenga giorno dopo giorno, ora dopo ora, presuppone l’incontro reciproco di due volontà che si scelgono quotidianamente. Quel figlio che metti al mondo, senza la sua volontà, richiede un impegno in termini di “amore” maggiore rispetto a quello messo nei confronti di una relazione, proprio perché manca dell’atto di scelta iniziale della parte in causa, quello secondo cui due anime rinnovano scientemente una promessa di condivisione di vita e progetti, che un figlio trova già impostata.

Un figlio, è il figlio di quel progetto. Un figlio è il bisogno ancestrale della continuità della specie, il desiderio mortale di immortalità. Sicuramente esiste una regola aurea della maternità, l’archetipo culturale, profondamente radicato, della madre che cura, che protegge. Alla stesso modo esiste ancora l’idea cattiva secondo cui essere donne significa essere madri, le donne che vogliono essere madri sono buone e altruiste mentre quelle che non vogliono, sono persone egoiste. Esiste una sacralizzazione della maternità  non reale perché non esiste la madre perfetta, come non esiste la donna perfetta. Non esiste una maternità buona o una maternità cattiva, ci sono piuttosto dei ruoli che si sovrappongono e sono difficili da gestire. E sì, molto spesso anteponiamo il fatto di essere madri a quello di essere donne, non perché il figlio nato cancella la nostra personalità, quanto piuttosto perché quel figlio nato assorbe, travolge, invade, pervade e ti fa innamorare perdutamente. Come un quindicenne.

E l’innamoramento verso il proprio figlio non può che essere diverso rispetto a quello del proprio compagno, perché istintivo, primordiale, fatto di odore, di pelle, di sangue, di naturale senso di abnegazione che non ha niente a che fare con l’istinto materno, quanto piuttosto con qualcosa di fusionale, esclusivo, assolutizzante. Naturale amarlo più della propria vita, ordinario nella sua straordinarietà, azzurro, come il cielo che deve essere.