Come
si misura la dimensione di un amore, la sua crescita o il suo decremento? Con
un termometro che ne rilevi la contrazione o lo sviluppo? Con la determinazione
di indicatori capaci di valutarne l’estensione, la superficie, la profondità?
Oppure, stimando le emozioni?
E,
come si stima l’impatto di un’emozione? L’influenza di una nostra azione
sull’altro, o la conseguenza di quella dell’altro su noi? Controllando la
presenza, la vicinanza, i messaggi, i gesti?
Riflettevo
su questo da giorni quando, questa mattina mi sono imbattuta in un articolo di
Viviana Ponchia sulla Nazione che scrive a proposito del rapporto tra Massimo
Bossetti, in carcere per il presunto omicidio di Yara Gambirasi e sua moglie
Marita. Riporto alcuni brani dell’articolo della giornalista, senza entrare
volutamente nel caso, solo perché alcuni passaggi mi hanno colpito, in
riferimento alla mia domanda iniziale: Come si misura un amore? Lo faccio, nel
pieno rispetto di una vicenda dolorosissima. Ma, trovo molto bello il modo di
descrivere la routine di un rapporto, indipendentemente dal rapporto nello
specifico, che è fatta di mille piccoli gesti che, day by day, costruiscono, a
mio avviso, la logica dell’amore.
“Tre figli, la biancheria
sporca che si mescola nello stesso cesto. I conti da far quadrare in due. Le
sere, tutte uguali, cementificate in una banalità felice. E quell’abilità che
non si apprende sui libri, il talento di tradurre uno sguardo, un piccolo
cedimento del sorriso. A forza di stare insieme si diventa chiaroveggenti, il
pensiero dell’altro è il lenzuolo con macchie e strappi che gli altri non
vedranno mai. Si passano le notti nello stesso sogno. Abitudini, strategie: uno
scambio per contagio. Certi matrimoni sottopongono i partecipanti a
modificazioni antropologiche. Per affetto o necessità si diventa gemelli
siamesi, legati dal cuore o dalla testa. Si va avanti come nel tango, eretti e
sincronizzati finché la musica suona”.
Si
batte un tempo in due e se uno inciampa, si aspetta. La scansione ritmica è, a
volte, data da ciò che sente il cuore.
Deduco
quindi, che, l’amore si misuri con un metronomo.
Che
lo si veda o lo si senta, non ha importanza, a patto che, come Fossati insegna,
qualunque amore che si faccia più vicino al cielo, nasconda l’orizzonte e poi
ancora, cielo.
Si penso che il metronomo sia una buona unità di misura dell’amore e renda bene l’idea del ballare comunque sulle note della stessa musica. In fondo l’amore non è forse quell’inafferrabile tensione che porta ad identificarsi l’uno nel ritmo dell’altro? E come prova contraria, la fine di un amore non è forse accorgersi che si sta ballando entrambi, ma su musiche diverse? Infine, a completamento dell’immagine che più ci penso e più mi piace, le stagioni dell’amore non sono forse come i generi musicali? Third wave ska a 20, Rock a 30, Funky a 40, rhythm and blues a 50 , jazz a 60 e classica ,con magari un bel valzer alla fine, over 70? Grazie infinite per lo spunto di riflessione mi hai regalato una bella immagine e una sincera emozione
RispondiEliminaBella anche la tua descrizione dei diversi generi musicali.Chissà come sarà, immaginarsi sulle note di un valzer? Speriamo di riuscire a sentirne le note!!!
EliminaIo credo che l'amore sfugga troppo a ogni logica.
RispondiEliminaInnamorarsi è perdere le redini della propria vita. Continuare ad amare è un sforzo felice, perché ciò che non viene curato prima o poi muore. Se si pensa logicamente, è più difficile amare, perché gli esseri umani sono per natura orientate alla ricerca del proprio benessere, mentre per amare davvero bisogna mettere i bisogni dell'altro davanti ai propri, perché "ti voglio bene" non basta: serve "voglio il tuo bene".