A Venezia torna Kennedy. E’stato presentato alla Mostra di Venezia "Parkland"
le storie di chi, quel giorno di
novembre c’era. Peter Landesman, reporter investigativo del New York Times debutta
dietro alla macchina da presa con un film che si concentra sulle vicende di
medici, infermieri, agenti di polizia presenti a Dallas il 22 novembre del 1963.
Il regista: "Volevamo metterci nei panni degli uomini qualunque che
si sono ritrovati a vivere la Storia”.
Sono sempre stata attratta dalla figura di Kennedy. La saga della sua
famiglia mi affascina. Una famiglia in bilico tra successo e dramma, potere e
umanità.
Forse, i grandi leader, quelli veri, desiderano essere liberati dalla
solitudine del loro potere e la vita impone loro dolori enormi a dimostrare
che, alla fine, è lei a detenere il potere più grande.
Tempo fa, ho immaginato una donna…
Sento
freddo, tanto freddo.
Ho le
gambe intorpidite, irrigidite e ferme, quasi senza vita, esattamente come quel
figlio che non c’è più.
Dalle
persiane filtra una luce quasi liquida. Un barlume che si scioglie, liquefatto
nella pena.
Deve
essere giorno. Un altro interminabile, lunghissimo giorno. Se chiudo gli occhi,
posso far finta di essere altrove, posso far finta che sia ancora notte, far
finta che il sole non sorga mai più.
Non sento
niente. Né mani, né piedi, né anima.
No, sbaglio,
ti sento, eccome. Freddo, gelido, paralizzante come solo il dolore sa essere.
Non
voglio alzarmi, voglio sprofondare, dimenticata, insabbiata nel niente.
Non credo
che verrai a vedere se sono sveglia, sei troppo occupato a trasformarti nel più
grande mito americano.
Non che
io ti aspetti, non lo faccio più da anni. Non trovo neanche più disdicevoli le
tue scappatelle.
Non mi
hai promesso nulla di più di quanto io stessa non fossi pronta ad accettare.
Sono
l’icona dell’eleganza internazionale, sono la first lady, sono la moglie di
JFK, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America, il primo
presidente americano cattolico.
Il primo
che muove le masse, il primo che coltiva gli ideali di giustizia, ma non
disprezza, quanto me, il lusso e la materialità.
Come sei abile
nel promettere una svolta epocale, come sei umano nel programmare la
cancellazione di ogni discriminazione. Realizzare velleità idealistiche è un’arte
che, eserciti con vigorosa maestria. Scontenti tanti, forse i più potenti, ma
sei così abile da conquistarti il cuore dell’America vera, il sostegno dei più
deboli.
E ti ho
amato per questo, Dio solo sa quanto ti ho amato.
Hai
energia, carisma, stile, hai fascino da vendere; ma ricorda, la tua immagine la
devi anche a me. La tua devota e altrettanto fascinosa moglie, l’aristocratica
e raffinata Jacqueline, l’intellettuale e colta signora Lee Bouvier.
Sei bravo,
indiscutibilmente bravo; bravo nel governare, bravo nel nascondere i tuoi
tradimenti, bravo nel lasciarti sempre aperte vie di fuga, così ti è più
facile, poi, provvedere alle attese deluse di chi ti ha aspettato, di chi ha
progettato e creduto nel disegno di una famiglia felice, di chi ha sognato per
te e per se, un futuro migliore insieme, consapevole una volta in più, di farlo
a suo rischio e pericolo.
Non
aspetto più. Non ti aspetto più. O forse aspetto solo di trovare la forza per
alzarmi di nuovo, per tornare a essere di nuovo la “debuttante dell’anno”,
quella ammirata per il portamento, la grazia, la bellezza, quella mai appariscente
e volgare. Quella le cui apparizioni in pubblico sono sempre un gran successo,
centellinate con pazienza e moderazione, pensate e calibrate per contribuire
alla credibilità del presidente, il padre dei suoi figli.
Ma noi
questo figlio lo abbiamo perso. Solo due giorni. E’ vissuto, solo due giorni.
Come se gli fosse bastato così poco tempo per decidere che non gli piaceva per
niente entrare a far parte di questa farsa, questa tragica commedia che abbiamo
creato insieme.
Arabella
è stata meno coraggiosa, lei è nata morta. Forse anche lei ci ha spiato,
osservati per poi decidere di non vivere.
Sento dei
passi lontani, di sicuro non sei tu.
Ho voglia
di scomparire, di abbandonare questo mondo, di non lasciare traccia alcuna, di
evaporare come l’acqua, smarrirmi dentro le pieghe di questo letto.
Sento il
suo odore, qui dentro. L’odore di un nuovo inizio, di una nuova alba, un altro
bambino che avrebbe rinsaldato la nostra unione, una nuova ancora a cui
aggrappare questa nostra travagliata unione.
E invece
no, Dio ci ha punito. Ha punito scavando nelle nostre vite private, ci ha
punito per la nostra integrità morale.
Lo sento,
lo sento come un presentimento, come un orrendo presagio. Sento che questo è
solo l’inizio. Sento che il destino ci chiederà il conto per una vita piena di agi,
sento che dovremo espiare le colpe della nostra bramosia di potere.
Ho freddo,
un freddo anormale, un gelo che mi blocca il sangue. Perché il mio bambino,
perché lui, perché sento che non finirà qui?
Ho fatto
un sogno, questa notte, o forse la precedente, non lo ricordo bene.
Tenevo i
bambini per mano e seguivamo silenziosamente una lunga processione funebre.
Cercavo
disperatamente qualcosa, ma non ricordo cosa.
Ero
agitata, disperata.
Ho
pensato che fosse per via di quello che era successo, per via del funerale del
bambino.
Mi sono
svegliata con il fiato grosso, affannata, stremata. Tu non c’eri, non eri
accanto a me. Ho guardato la mia mano, cercandovi dentro i pezzi della tua
testa.
Ti odio,
eppure non riesco a impedire che affiorino le immagini del nostro primo
incontro.
Il
Washington Times-Herald mi dette l’opportunità di intervistarti; tu eri, allora,
il senatore del Massachussetts. Fu un vero colpo di fulmine, ci sposammo l’anno
dopo.
La tua
famiglia disse che io li sedussi, tutti quanti. Capì più tardi che io vi davo
quello che a voi mancava: la classe.
Tuo padre
ha sempre sognato un figlio presidente d’America.
I suoi imbrogli
insieme con quelli di tuo nonno, hanno fatto della tua famiglia una delle più
ricche, meglio non sapere per mezzo di quali attività o grazie a quali
alleanze.
Io ero
quello che ti mancava; una moglie sobria, colta e ben educata.
Oh, Dio John,
quand’è che ci siamo persi?
Quand’ è
che abbiamo smesso di credere in quello che eravamo per diventare la coppia
presidenziale più in voga del momento? Quand’è che abbiamo smesso di essere una
coppia per diventare due estranei?
E’
possibile aderire così completamente a un ruolo, al punto di perdere la propria
identità, al punto di perdere quello che si è stati, quello in cui si è creduto?
Al punto
da non sentirsi più semplicemente Jackie?
Eppure, lo
avevamo promesso. Ma lo abbiamo dimenticato, ciascuno impegnato a negoziare con
le proprie bramosie.
Abbiamo
perso John, abbiamo perso il nostro bambino, abbiamo patteggiato una vita
sfavillante, al posto di qualcosa che non c’è più.
Inutile
stupirsi, forse lo sapevamo.
Non
aspetto più nulla, eppure, aspetto da un momento all’altro che entri da quella
porta e che mi abbracci.
Mi
aspetto che il mondo si fermi, anche solo per poco, per rispettare il mio
lutto; mi aspetto che la vita si interrompa, anche per pochi istanti, che mi
dia tempo per rincollare i nostri pezzi, che ci dia tempo per ritrovarci,
smarriti e sperduti dentro eventi che hanno cambiato rotta.
Io non so
più dove cercare, John, non lo so più.
Avevo
undici anni quando i miei divorziarono. Undici anni. Come può una bambina di
quell’età capire cosa sia una separazione?
Ho
promesso a me stessa, che mai avrei fatto vivere ai miei figli la stessa sorte,
quella subita da me e mia sorella.
La
ricchezza, i viaggi, gli studi all’estero, l’arte, non hanno mai riempito un
vuoto incolmabile.
A
quell’epoca mi salvò l’amore per i cavalli. Diventai brava, sai? Una bravissima
cavallerizza.
Forse
avevo già cominciato la mia corsa.
Sai come
la gente chiama la tua amministrazione, John?
“Camelot”.
Camelot,
la fortezza di re Artù.
Camelot,
luogo di cavalieri, patria delle più alte qualità.
E da te,
amore mio, ci si attende la più grande delle virtù.
Una virtù
che comprenda ogni valore; franchezza,
bonta' e nobilta', pieta' e temperanza; coraggio e forza fisica; disprezzo
della fatica, della sofferenza e della morte; coscienza del proprio valore;
fierezza di appartenere ad una casata, di essere uomo, di rispettare la
fedelta' giurata, bellezza fisica, eleganza,
dolcezza, delicatezza. Ogni virtù, amore mio.
Ma vedi caro,
per quanto gli altri o le generazioni future, potranno considerare la tua
presidenza un’epoca idilliaca, il momento del tuo splendore, è il mio momento
di infelicità.
Le cose che mi allontanano da te sono le stesse che
a te mi riportano, le cose che odio di te , sono le stesse che di te mi
affascinano.
Ma per essere uomini non basta la nobilta' di nascita: i doni naturali devono essere affinati da una speciale educazione e mantenuti in esercizio dalla pratica quotidiana.
Ma per essere uomini non basta la nobilta' di nascita: i doni naturali devono essere affinati da una speciale educazione e mantenuti in esercizio dalla pratica quotidiana.
La fedeltà giurata deve essere mantenuta. Deve
essere mantenuta.
E’
inutile che io rinnovi gli interni di questa casa, inutile che io allestisca e
restauri questa dimora, come un nascondiglio, un rifugio, inutile che organizzi
pranzi ufficiali, circondandoci di artisti e celebrità; questo non sarà mai il
nostro focolare.
Ricordo
bene il discorso del tuo giuramento. Chiedesti agli americani cosa ognuno potesse
fare per il proprio paese.
E noi, John,
cosa possiamo fare per salvarci, per salvare quello che resta di noi?
Lo so,
non sono migliore di te. Viviamo ad un gradino così alto della scala sociale,
che siamo costretti ad una vita fuori dagli schemi, diversa da quella della
gente comune.
A volte,
come adesso, qui nel letto, rimpiango di non aver scelto quel tipo di vita.
Ma come
avrei potuto? Io sono nata per questa vita.
Avrei
voluto curare la tua osteoporosi, alleviare i dolori della tua spina dorsale,
sorreggerti nei momenti bui, avrei voluto.
Lo so,
sai? So delle tue relazioni extra-coniugali con il personale femminile, so
delle visitatrici della Casa Bianca, so di quell’attrice, che porterai alla
follia.
Ma
attento John, lei è molto più fragile di me.
Non
abbandonerò il mio status per gettarti tra le braccia di una qualunque, per
quanto bionda e bella possa essere.
Io sono
la moglie di JFK, la sola, l’unica e per quanto io non gradisca questo titolo
che mi ricorda il nome di un cavallo, io sono la First Lady.
A volte
penso che un’inflessibile legge del contrappasso accompagnerà sempre la fama e
il successo della tua famiglia e di conseguenza anche la mia.
La prima e
unica famiglia reale americana che farà eternamente i conti con un cupo
destino.
Siete un
clan, John e come tale cercate di coprirvi l’uno con l’altro, cercate di
nascondere i vostri drammi. Come avete fatto con la povera Rosemary.
Tuo padre
proprio non poteva sopportare che uno dei suoi figli non fosse capace e
competitivo, non poteva sopportare che avesse delle possibilità in meno
rispetto agli altri. L’avete gettata in un istituto per malati di mente come
una cosa difettata, una macchia, qualcosa di cui vergognarsi e da nascondere.
Quanta
bugie John, quante bugie.
Se solo
si potesse andare oltre l’immagine ufficiale di coppia felice che regaliamo, se
solo fossimo in grado di andare oltre l’apparenza.
Vorrei
urlare, urlare a tutti, “E’ una fandonia, è tutto un grande bluff”.
A
dispetto delle foto che ci ritraggono insieme ai nostri figli, dentro quegli
abiti volutamente informali e in finti teneri atteggiamenti, siamo due persone
orribili.
Sai che
cosa ho fatto, John? Ho chiesto il divorzio. Ma certo che lo sai. Come sai che
non arriverà mai, mi conosci troppo bene.
Hai
spedito tuo padre a comprarmi non appena si è sparsa la voce dentro la famiglia.
E sai la
cosa peggiore John?
Mi sono
fatta comprare da un milione di dollari. Sì, John, proprio così, la nuora
infelice si è venduta in cambio della salvezza della nostra unione.
Che
scandalo sarebbe stato, avrei precluso la strada del successo politico anche ai
tuoi fratelli e questo tuo padre non poteva accettarlo.
E’ più
facile attribuire a te la colpa della mia infelicità piuttosto che ammettere
che sono io stessa la causa del mio sconforto. Ho liquidato la semplicemente
Jackie per una vita vissuta all’insegna del potere e del tradimento.
Non sono
migliore di te.
A volte
penso che solo una grande tragedia possa mettere fine a questo spettacolo e a
questa gloria.
Nonostante
i nostri drammi, solo un finale più tragico, solo una tua plateale morte
potrebbe renderti eterno. Tu rimarresti senza tempo, infinito, illimitato,
sconfinando la tua grandezza nelle generazioni future, indelebile come i grandi
sogni.
Quanto a
me, non sarò mai semplicemente Jackie, amo troppo il denaro e il potere.
Ho
aspettato troppo. Sono stanca. Ormai sarà giorno e come sempre tu non sei qui.
Un altro
nostro insuccesso, la nostra ennesima sconfitta.
I tuoi
impegni sempre più impellenti, le emergenze del mondo, il mio disincanto, la
freddezza che ha preso il posto alla tenerezza, quella capacità di ascolto che
tanto mi aveva affascinata quando ancora eravamo capaci di trovarci, la mia
disponibilità esasperata.
Bugie, presidente,
altre bugie. Non sono queste le ragioni della nostra fine.
Siamo noi,
John, la parte peggiore di noi.
Con uno
sforzo sovraumano cerco di alzarmi.
Dio dammi
di nuovo la forza, salva quello che resta, salva i miei figli.
Fa che a
loro non accada mai niente di orribile e se dovesse capitare fa che io non
assista alla loro morte.
Niente
scuse o perdoni per me, sono quello che sono.
Semplicemente
Jackie.
Che bello, Raffaella...
RispondiEliminaUn dolore universale in una vita unica, lo hai reso perfettamente.
RispondiEliminaUn fantastico racconto! Bravissima Raffaella!
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