Ieri, mentre mio figlio abbozzava una
guerriglia con l’asfalto resistendo di tutto punto ai codardi sampietrini,
armato di tenacia e cocciutaggine, tali per cui a confronto la lotta partigiana
più tenace sarebbe stata uno zuccherino rispetto alla resistenza attuata dal
nanetto nell’impresa di camminare da solo per la strada, è successa una di
quelle cose che ti fanno pensare, almeno a me.
Un nanetto indiano, dalla bellezza al cumino,
gli occhi profondi dell’Oriente e lo sguardo dolce di chi è buono per indole,
si è avvicinato a mio figlio, biondo ed etereo come un disegno di Peynet e gli
ha dato la mano. I due, trotterellando incerti, stretti, le manine di colori diversi intrecciate dentro un reciproco nodo, hanno percorso insieme un pezzo di strada. Dietro, il mio sguardo vigile e quello di un signore dall’età incerta nascosta sotto un turbante di colore arancione.
Forse anche il signore dal copricapo arancio
avrà pensato all’indeterminatezza della mia età o gli sarà sembrato strano che quel
bimbo così biondo dai grandi occhi grigi fosse proprio il figlio della ragazza
scura.
Vallo a spiegare a chi ci vede in giro che
il padre è chiaro come un irlandese e che mio figlio ha i suoi stessi colori e
che io non sono la tata cubana e non vengo tanto meno da Puerto Rico.
Ho pensato, guardandoli, alle foto di
Oliviero Toscani e alle campagne pubblicitarie del marchio Benetton, dove l’immagine
di bambini di razze, culture, colori diversi, ridono a crepapelle davanti allo
stesso obiettivo, senza problemi, senza parole, naturalmente.
Così è stato per mio figlio e per il bimbo
indiano. Si sono guardati, hanno riso con gli occhi e hanno deciso di dividere
un pezzo dello stesso percorso.
Senza presentazioni, senza ragioni, senza.
Nessuna
sovrastruttura da decomporre, nessuna ferita da rivendicare, né torte né
ragioni.
Non c’era tra loro un Dio diverso, un oro
per cui combattere, la ragione del più forte.
C’erano solo loro due, un bimbo chiaro e uno
scuro che si tenevano per mano, improbabili, precari, terribilmente buffi e
infinitamente lirici.
E’ stata una rima, un frammento di
universalità. E’ stato la coda di un’emozione, un verso emerso da una giornata
lunga e faticosa che mi ha fatto sentire, per poco, per un breve istante di
appartenere alla stessa madre. Stessa sorgente, stessa causa, medesima radice,
pelli diverse.
Ho pensato ai bimbi incontrati in Cambogia
in Tailandia in Africa e altrove.
Ai loro volti, qualcuno con i denti sgangherati,
i vestiti sdruciti, a piedi nudi nel fango o nella sabbia polverosa di un
continente lontano. A quanto siano simili le loro richieste: ”One dollar,
please”con quelle di mio figlio che in un’inverosimile lingua bambinese mi chiede
di fare l’ennesimo giro di giostra.I loro animi sono bianchi, candidi come può esserlo il colore della giustizia, indipendentemente dal colore della pelle o del credo dei genitori.
I loro cuori sono colmi di meraviglia,
bicchieri pieni di sogni e aquiloni.
Le farfalle disegnano strane parabole nei
loro ragionamenti, eppure trovano sempre un verso e un senso. Hanno sguardi di
stupore, le lucciole negli occhi e pagliuzze dorate con cui tessono realtà d’incanto.
Sono così i bambini, giocano nei posti
più scomodi, con quello che hanno, mestoli, scatole, rami o foglie e con queste
inventano storie. Storie sotto, storie sopra, storie dentro la scatola dei
cerini. Poi, stremati da tanto viaggiare si addormentano, improvvisamente
crollano.
E nel silenzio, all’ombra dei giocattoli di
fortuna, mentre riposano i draghi, i re, i conigli e le principesse, quando
anche il vento e il sole tacciono per non svegliarli, anche noi adulti dovremmo
tacere provando ad ascoltare il suono dei tuoni e delle saette. Dovremmo
guardare ciò che loro vedono.
Andare su, più su, dove il vero non è vero, oltre
ciò che si chiama fantasia.
Oltre i nostri limiti e le nostre ostilità e provare a prendere per mano un uomo dal turbante
arancio.
È successa praticamente la stessa cosa sabato scorso al supermercato: una bimba ha preso per mano la Purulla e si sono fatte una corsetta insieme. Hanno riso come matte, come stessero facendo la cosa più bella del mondo. E in effetti non avevano tutti i torti.
RispondiEliminaIo e la sua mamma, che aveva un neonato di dieci giorni in braccio, le abbiamo rincorse e ci siamo salutate con un sorriso complice.
I bimbi non pensano a ebony and ivory, vedono solo quello che c'è da vedere, un compagno di risate.
Raffaella il tuo post è pura poesia:-) Anche me mi confondono per la tata Turca:-))..bellissimo post che fa pensare che i colori diversi tra mamma e figli non esistono..cosi dovrebbe essere nella società..ma non è sempre cosi.
RispondiEliminaQuesta è' la meraviglia dei bambini. Loro vanno oltre, oltre tutto. Senza tanti se e senza tanti ma.
RispondiEliminaMio figlio è di carnagione mediterranea e il suo miglior amico di scuola è praticamente albino. Noi li chiamiamo "Ringo" come i biscotti!!
Baci
i bambini son tutti uguali, se solo noi adulti mantenessimo almeno un po' la loro semplicità e naturalezza il mondo sarebbe un posto migliore.
RispondiEliminaBellissimo. Bellissimo il post, la tua purezza e quella dei bimbi.
RispondiEliminaIl mondo sarebbe un posto migliore se noi adulti ci relazionassimo gli uni con gli altri come fanno i bambini: senza preconcetti, senza pregiudizi
RispondiEliminaUn post bellissimo. Non aggiungo niente. Cito solo la famosa frase di Tar Ben Jelloun: "Nessun bambino nasce razzista". Questo tuo post ne è la dimostrazione!
RispondiEliminaNoi ipotetici "adulti" dovremmo smetterla di far guardare il mondo ai nostri figli, attraverso i nostri occhi ed incominciare ad osservarlo usando i loro. Difficile ma bello!
RispondiEliminal'innocenza, non avere filtri, pregiudizi...poi si perde tutto e si diventa inevitabilmente adulti. Molti tentano di vivere comunque a pelle le emozione fanciullesche, come me, ma di solito la massa capisce poco. baci
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