giovedì 25 febbraio 2016

La logica dell'amore


Come si misura la dimensione di un amore, la sua crescita o il suo decremento? Con un termometro che ne rilevi la contrazione o lo sviluppo? Con la determinazione di indicatori capaci di valutarne l’estensione, la superficie, la profondità? Oppure, stimando le emozioni?

E, come si stima l’impatto di un’emozione? L’influenza di una nostra azione sull’altro, o la conseguenza di quella dell’altro su noi? Controllando la presenza, la vicinanza, i messaggi, i gesti?

Riflettevo su questo da giorni quando, questa mattina mi sono imbattuta in un articolo di Viviana Ponchia sulla Nazione che scrive a proposito del rapporto tra Massimo Bossetti, in carcere per il presunto omicidio di Yara Gambirasi e sua moglie Marita. Riporto alcuni brani dell’articolo della giornalista, senza entrare volutamente nel caso, solo perché alcuni passaggi mi hanno colpito, in riferimento alla mia domanda iniziale: Come si misura un amore? Lo faccio, nel pieno rispetto di una vicenda dolorosissima. Ma, trovo molto bello il modo di descrivere la routine di un rapporto, indipendentemente dal rapporto nello specifico, che è fatta di mille piccoli gesti che, day by day, costruiscono, a mio avviso, la logica dell’amore.

“Tre figli, la biancheria sporca che si mescola nello stesso cesto. I conti da far quadrare in due. Le sere, tutte uguali, cementificate in una banalità felice. E quell’abilità che non si apprende sui libri, il talento di tradurre uno sguardo, un piccolo cedimento del sorriso. A forza di stare insieme si diventa chiaroveggenti, il pensiero dell’altro è il lenzuolo con macchie e strappi che gli altri non vedranno mai. Si passano le notti nello stesso sogno. Abitudini, strategie: uno scambio per contagio. Certi matrimoni sottopongono i partecipanti a modificazioni antropologiche. Per affetto o necessità si diventa gemelli siamesi, legati dal cuore o dalla testa. Si va avanti come nel tango, eretti e sincronizzati finché la musica suona”.

Si batte un tempo in due e se uno inciampa, si aspetta. La scansione ritmica è, a volte, data da ciò che sente il cuore.

Deduco quindi, che, l’amore si misuri con un metronomo.

Che lo si veda o lo si senta, non ha importanza, a patto che, come Fossati insegna, qualunque amore che si faccia più vicino al cielo, nasconda l’orizzonte e poi ancora, cielo.

venerdì 5 febbraio 2016

Un tema su cui non ho certezze


Torno, con una certa irrequietezza, a parlare di argomenti vicini ai motivi per i quali, questo blog è nato.
Maternità, nelle sue diverse declinazioni, nelle sue innumerevoli sfumature, nei suoi diversi significati. O forse, più precisamente, di Gravidanza, nelle sue diverse declinazioni, nelle sue innumerevoli sfumature, nei suoi diversi significati.
 Lo faccio, riportando la riflessione della scrittriceMichela Murgia, sulla maternità surrogata che, dopo giorni di scelleratezze e stupidità lette ed ascoltate, urlate dai fedeli sostenitori del family day, da alcune correnti femministe, dagli oltranzisti difensori della “famiglia tradizionale”, mi sembra il ragionamento più serio ed onesto, fin’ora affrontato.

La riflessione della Murgia nasce dall’appello contro la "maternità surrogata"presentato da un pezzo del  movimento Se non ora quando -l’associazione Snoq Libere- che ha aperto il dibattito a sinistra, denunciando i rischi di quello che viene appositamente descritto come «utero in affitto». La Murgia non ha firmato l’appello, spiegando in un corretto, integro e schietto ragionamento, la sua posizione.

 “Da settimane mi ronza in testa il fastidio legato all'appello firmato da molte donne (e tra loro molte che stimo e con cui ho condiviso percorsi), ma che io mi sono rifiutata di firmare, come tante altre. Non ho scritto ancora il perché e la ragione è che il perché è complesso e richiede molta e collettiva elaborazione, che sospetto siano alcuni degli aggettivi con cui non si può definire il percorso che ha condotto alla stesura dell'appello di Snoq Libere. Vorrei iniziare l'anno condividendo in post differenti alcune riflessioni che ho fatto in questi mesi sul tema, cercando il più possibile di isolare le direttrici del discorso per affrontarle con la minima confusione possibile, e intendo la mia, dato che questo è un tema su cui non ho certezze

Prima di cominciare a discutere di maternità surrogata penso che andrebbe definito meglio cosa dobbiamo intendere per maternità nel 2016. Se con essa ci riferiamo alla dimensione fisica e/o spirituale che unisce al desiderio procreativo la disposizione ad assumersi la responsabilità genitoriale su una vita altrui, è escluso che essa si possa surrogare, giacché è un atto di volontà e consapevolezza personale non alienabile.

È fin troppo ovvio dire che non basti restare incinte per parlare di maternità, ma forse non è altrettanto ovvio ricordare che questa affermazione è una conquista civile piuttosto recente. Per secoli siamo state infatti madri per forza, impossibilitate a sottrarci al percorso del sangue e alle funzioni collegate, se non a prezzo di una fortissima condanna sociale. Sono state le lotte del femminismo del secolo scorso a costringere la società a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo, trasformando in scelta individuale ciò che era un destino collettivo.

Non è quindi tollerabile oggi in un discorso serio sentir definire “maternità” il processo fisico della semplice gravidanza, che in sé – e lo sappiamo tutte – può escludere sia il desiderio procreativo sia la disposizione ad assumersi la responsabilità e la cura del nascituro. Di conseguenza è improprio discutere anche di maternità surrogata. Si può discutere invece di gravidanza surrogata, purché resti chiaro che si tratta di qualcosa di profondamente diverso. Operare questa distinzione è tutt’altro che ozioso, perché la legge italiana – entro i limiti che conosciamo – permette già ora a una donna che resta incinta di scindere i due processi e agire per rifiutare il ruolo indesiderato di madre, sia attraverso l’interruzione di gravidanza, sia attraverso la rinuncia permanente a curarsi del neonato.

Chi si oppone alla gravidanza surrogata chiamandola “maternità” e adducendo come motivazione l’unicità insostituibile del legame che si stabilirebbe tra gestante e feto sta ponendo le condizioni perché gravidanza e maternità tornino a essere inscindibili e quella sovrapposizione torni a essere usata contro le donne SEMPRE, ogni volta che per i motivi più svariati provassero a scegliere di non essere madri.

Reintroducendo nel dibattito la mistica deterministica del “sangue del sangue” non si sta quindi mettendo in discussione solo l’ipotesi della surrogazione gestazionale, ma anche alcuni comportamenti che sono già normati come diritti nel nostro sistema giuridico, cioè l’aborto e la possibilità di rinunciare alla potestà genitoriale, per tacere dell’adozione, legame di pura volontà che in questo modo – non originandosi “dall’avventura umana straordinaria” della gravidanza – tornerebbe nell’alveo delle maternità di serie B. Sbalordisce dunque che a utilizzare la categoria del legame naturale siano donne che si richiamano al percorso femminista.

La motivazione è evidente: proprio perché un essere umano non è una merce, in nessun caso il denaro versato alla donna gestante può essere considerato un corrispettivo per il bambino, ma sempre e soltanto una remunerazione della sua gestazione. Si paga il tempo, si paga il rischio, si pagano le assistenze, ma non si compra il nascituro, la cui cessione avviene per pura volontà da parte di colei che ne è a tutti gli effetti la madre fisica. Non importa di chi sono gli ovociti e lo sperma: anche la gestante ci mette del suo, non è un mero corpo attraversato. Non importa nemmeno quanto è costato il processo: il risultato sarà comunque un dono, che può restare in mano alla sola persona che ha il diritto di considerarlo proprio fino a quando non rinunci spontaneamente a farlo.

La discriminante in un ragionamento da credenti non può dunque essere “quanto voglio il figlio”, che è un desiderio legittimo sia sul piano emotivo che sul piano simbolico, ma “quanto sono disposta a usare il corpo di un’altra per ottenerlo”. Che lei me lo conceda è relativo: il bisogno economico potrebbe spingerla a farsi mia schiava come Bila lo fu di Rachele e in questo non c’è autodeterminazione. La mia a prezzo della sua… è accettabile? Ed è autodeterminazione il pensiero che mi impedisce di percepirmi pienamente donna se non divento anche madre? Non lo so, perché questa spinta a riprodurmi non l’ho mai avvertita dentro di me al punto da considerare un’ipotesi del genere. So però che davanti al desiderio di un’amica, di una sorella del cuore, quello che non ho chiesto mai a un’altra per me stessa, lo farei io liberamente per lei. E non vorrei che esistesse una legge che mi dicesse che non posso farlo”.

Personalmente, quello che trovo di più bello in questa lunga considerazione, è la certezza di non avere certezza in materia e, di conseguenza, l’umiltà di dire “non lo so”, ma se lo sapessi, vorrei poter essere libera di scegliere.