venerdì 29 giugno 2012

Insalata di riso. Blog ricco mi ci ficco


Prendetevi un ò di tempo. Sto’ post è un po’ lunghetto ma spero non faccia riflettere solo me.

 Qualcuno a me molto vicino di cui non dubito l’affetto (essendo uno mio marito e l’altra la mia migliore amica) mi ha fatto notare che Mammamimmononsolo, blog carino e divertente nel suo insieme manca però di una linea editoriale. O meglio la linea editoriale coinciderebbe con quella personale, visto che il blog è il mio e quindi riflette quello che penso, vivo, provo, ma essendo per l’appunto personale, manca di una mission professionale, specifica e di qualità.

Azz!

Pare che un blog che si rispetti, degno di una buona reputazione e con gli attributi di uno stallone da riproduzione, debba avere una visione coerente riguardo determinati temi e competenze specifiche circa gli avvenimenti che ruotano intorno ai questi temi.

Insomma: un blog è un posto in cui dovresti parlare di un argomento che ti appassiona e che conosci profondamente senza andare fuori tema. Certo, esistono anche i blog generalisti, in cui il padrone di casa parla un po’ di tutto. Però, dicono loro, di solito questa roba funziona solo con i vip o con i personaggi famosi.

Pertanto, mi hanno fatto gentilmente notare che, a meno che io non sia la reincarnazione di Jane Austen, Rubbia o la prossima candidata al premio Nobel o allo Strega (e detto tra noi non credo che quest’anno mi presenterò all’uno o all’altro premio in quanto fuori forma), tale per cui possiedo delle cose intelligenti da dire per le quali trovo sempre qualcuno interessato al mio pensiero, pure nel caso in cui scriva delle corbellerie, perché mai uno che non ti conosce - dicono i miei cari- che non sa chi tu sia e nonostante ciò vive bene lo stesso, che non ha mai scambiato mezza frase con te, dovrebbe passare dal tuo blog, leggerlo, commentarlo, affezionarcisi e tornare qui a seguire quello che dici sostenendoti per l’eternità?

 A meno che il follower in questione non sia appunto tuo marito o una tua amica (detto tra noi la maggior parte delle mie amiche sta spalmata davanti al pc tutto il santo giorno e non ti lascia un commento manco se crepi dicendomi o che l’argomento che tratto è troppo specifico e intimo, o l’esatto contrario, che manco di coerenza e che da schizofrenica quale sembro devo decidere se questo è un blog sull’infertilità, sulla scrittura, sui pensieri di vita quotidiana e quindi nell’incertezza, non scrive niente per non sbagliare. O.K. sono confusa. Ma un pochino pure voi) devo avere cose interessanti da dirgli per trattenerlo tra le mie pagine senza catene, possibilmente.
 
Giunti a questo punto, i miei due sostenitori che non hanno una competenza specifica sulla gestione di un blog, ma per studio, professione, intelligenza e attitudine conoscono il mondo del web meglio di me, mi hanno tirato giù una lista di cose da fare affinché Mammamimmononsolo diventi un sito di qualità, che a confronto il rotolo della carta igienica su cui Dante da bambino scrive la Divina Commedia nella pubblicità di una nota marca (il blog è AD-free: non sono dunque presenti banner pubblicitari né informazioni pubblicitarie perché nessuno mi si fila, pertanto non prendo una lira dall’azienda che produce la suddetta carta igienica) è corto!

Mammamimmononsolo deve:

  • Decidere che tipo di Mommy blog vuole essere e quali argomenti trattare;
  • Una volta deciso, trattare l’argomento con competenza;
  • Riportare informazioni attendibili;
  • Scrivere bene e rileggere quello che scrive. Pare che io sia frettolosa e non rilegga i post!
  • Essere originale, ma anche un po’ meno di come sono;
  • Avere contenuti di qualità;
  • Confrontarmi con i blog migliori dei miei;
  • Essere autorevole e professionale, cosa che non riesco a fare ne con il mio cane ne con la signora che mi aiuta nelle pulizie;
  • Curare i dettagli e offrire il meglio di me. E il peggio n’do lo metto? Sotto al tappeto che tanto la signora delle pulizie non pulisce manco lì sotto se non glielo dico.


Considerato quanto ho da fare per migliorarmi, mi pare che il primo passo da fare sia decidere cosa vuole essere Mammamimmononsolo.

Uun blog sull’infertilità? Un blog sui sentimenti? Un blog insalata di riso, condito con tutti gli ingredienti che hai nel frigo del tuo io?

 Perché condividere l’esperienza della procreazione medicalmente assistita non basta, parlare delle emozioni che il viaggio verso il figlio cercato non basta, dividere la vita quotidiana, spartire i sentimenti del vivere non basta, scrivere non basta.

 Non so se riuscirò in questa impresa.

Mi chiedo e vi chiedo: come fa una che si annoia spesso, che ha la testa sempre in movimento occupata in una cosa o in un'altra (anche se si tratta soltanto di castelli di carta) che si distrae sembrando mezza scema se la conversazione non la interessa, che ha bisogno di nuovi progetti perché la nostalgia le attanaglia lo stomaco ed ha il terrore della parola “fine” e per questo ha bisogno di nuovi inizi, a parlare sempre e solo dello stesso argomento, per quanto autorevolmente lo si tratti?
Mi prendo un paio di giorni per pensarci.

Nel frattempo, visto che la “bafara” della conca in cui vivo sta facendo del tutto per mandarmi il cervello in pappa, spero di scappare via da questa città per raggiungere qualche paesino vicino.
La città dove vivo è davvero brutta ma i dintorni sono bellissimi.

Tic tac.  Il cuore dell’Umbria
Il cuore pulsava, batteva i palpiti lenti e regolari dello scandire delle stagioni.

Il suo, era il cuore d’Italia, piccolo e verde, posto al centro della  pancia dello stivale.

Eppure qualcosa mancava; mancava il fremito tipico di un cuore in sussulto, quello che fa vibrare, il tremolio del nascere di un amore. Era stanca di quel battito apparentemente privo di senso.

Non sapeva bene cosa cercasse, ma l’inquietudine della noia era più forte del  timore di un turbamento. Decise così di allontanarsi dal proprio posto, culla sicura di sonni pacati e di cercare altrove la sua emozione. E la trovò.

Incontrò il mare a pochi chilometri di distanza, immenso ed azzurro.
Umbria rovistò in fondo al suo abbraccio per scorgervi l’anima. Si innamorò della sua potenza e la conquistò la sua dolcezza, i doni attesi e non pretesi, i colori e le gradazioni  dell’indaco e del blu.

Lui per un poco si perse tra verdi paesaggi, dolci colline e concave conche dove accogliere l’amore.
Per un poco si rincorsero dentro vallate di girasoli, tra onde di terra e profumi di castagne.

Si riposarono sopra pianure lunghe come certe sere, abbracciati, tra la liquidità dell’inconsistenza e la saggezza forte della terra.

Ma il mare non lo puoi fermare; non lo si può contenere.
Fu un istante infinito, breve e fugace, unico ed irripetibile.

Ognuno tornò al proprio posto.

A volte lui si gonfia, inghiottendo le sue incoerenze, inondando e lavando via.

Non torna mai indietro, ma lascia che scorra altra acqua, lavando via rabbia e rimpianti..
A volte lei piange, piange fiumi di lacrime. Il suo  pianto si  trasforma in cascata e si getta dall’alto delle rocce, in un ripido, silente, rinnovato, addio; dalle Marmore, fino al centro della terra.

Il fragore nasconde il battito di un cuore strappato.

E le colline sospirano.
















giovedì 28 giugno 2012

Un giorno strano


Oggi è un giorno strano. Sarà per via dell’afa che sembra scioglierci come marionette di cera o della pressione sanguigna ai minimi termini. Novanta di massima sessanta di minima.

Che dite, non sarà un po’ bassina? Sarà che sfioro lo svenimento ogni volta che mi muovo. Forse mi sfracellerò al suolo per raggiungere una bottiglia d’acqua. In tal caso, lasciatemi lì.

E’ stato bello conoscervi ma proprio non ce la faccio a rialzarmi.

Sarà, ma ovunque mi giri, nel blog sfera o tra le persone che mi circondano aleggia uno strano sentimento di tristezza.

Depressioni, crisi latenti ci sfiorano intaccandoci, malinconie serpeggiano portandosi dietro negatività.

Lacrime, tante lacrime.

C’è uno scoraggiamento diffuso che sembra metterci tutti in ginocchio, sopra i ceci per giunta.

Abbiamo bisogno di serenità. Abbiamo bisogno di credere che domani sarà migliore di oggi di immaginare che al passare di queste nuvole orrende resti un cielo terzo e sereno.

Abbiamo bisogno di luce, di colore, di dare un valore al nostro vivere, di una direzione.

Avete presente l’odore che si diffonde nell’aria quando sta per piovere? Quel profumo di terra bagnata che indica che da qualche parte in un punto cardinale a noi sconosciuto è arrivata la pioggia e che questa presto bagnerà anche noi? E’ un odore particolare che si mescola a folate di aria diversa. All’inizio ti solletica le narici, ti pervade come una fragranza inattesa, ti avvolge.

E capisci che sta per piovere.

E quando accade, quando le nubi sprigionano la loro rabbia per tornare, una volta calmate, alla quiete di sempre, ti accorgi che ti stai bagnando.

L’acqua ti scivola addosso lavando via la paura, quel senso d’inadeguatezza misto al sentirsi in balia degli eventi.

Scioglie i nodi, i viluppi degli animi, le catene delle cose dette, di quelle non dette, di quelle strozzate.

Ci disperde liberandoci del superfluo. Lava via lo sporco dei pensieri negativi.

Di questo abbiamo bisogno, che l’acqua, o quello che di liquido c’è in noi, disperda i grumi che ci impediscono di vedere la luce oltre il tunnel.

Potrebbe essere anche un’ombra, quella luce oltre il tunnel. Ma non è meglio credere che sia energia invece che la parte oscura dei nostri rimpianti?

Prendo in prestito da fb questa fotografia. Racchiude il senso del mio accaldato post.














lunedì 25 giugno 2012

Perchè leggere a un bambino di sei mesi?


Avevo in serbo una sorpresa.
Et voilà, eccola uscire come un coniglio matto da un cappello a cilindro.
La mia sorpresa è un guest post a sorpresa, appunto, e per giunta incrociato.
Guest post…ci mancava solo questa! Ma che roba è questo guest post incrociato?
Il guest post è un post come tutti gli altri, pubblicato però sul blog di un altro blogger. Incrociato, significa che il blogger che ospita il guest post contemporaneamente, scrive un proprio post nel blog di chi sta ospitando.
Di solito questa pratica è vantaggiosa per entrambi i blogger. In questo caso, no!
In questo caso l’altro blogger è più famosa, più visitata, più conosciuta e più in gamba di me, considerato che ha la metà esatta dei miei anni e il doppio esatto del talento.
In altri termini, mi dà una pista!
Così mentre leggete questo interessante post sull’importanza della lettura fin dai primi mesi di vita, l’altra blogger, e mia amica, Romina Tamerici mi sta gentilmente ospitando a casa sua, e sta, altrettanto gentilmente, ospitando i miei pensieri   riguardo a un tema assai caro a entrambe: l’educazione alla lettura.
Vi ho già parlato di Romina, vero?
Romina alza la media di un’umanità banale. E non mi sembra poco. Non spetta a me però svelare i segreti di un’anima bella.
Entrambe crediamo che “creare lettori” renda il mondo, un posto più bello.

Ho sempre visto le storie intorno: in fila alle casse al supermercato, sui binari dei treni, lungo i rami che portano alle foglie gialle d’autunno. Ancora prima di vederle le ho lette e poi le ho scritte. La fantasia mi ha aiutato nei giorni no ed ha colorato di arancio quelli sì.
La fantasia che accende un libro è l’antidodo alla noia, un salvagente nel mare della mediocrità. È  la possibilità di vedere il mondo con occhi diversi rispetto ai propri, la possibilità di cambiarne il senso rendendolo lieve e migliore.

Oggi questo post ha ancora più senso. E deve averlo perché la scuola è finita, perché tanti bambini saranno più soli, perché non tutti avranno la possibilità di svolgere attività alternative a quelle scolastiche, perché le valigie aspettano di essere colmate dei libri da portare in vacanza, perché la fantasia dei bimbi che resteranno abbia la possibilità di raggiungere cieli che nessun aereo potrà mai toccare.

Romina ed io abbiamo provato a trattare un tema che amiamo da due diverse prospettive. Purtroppo però, mentre io beneficerò dell’autorevolezza, dei visitatori e della fama che il blog di Romina si è creata nel tempo, lei non potrà fare altrettanto, tranne per i visitatori.
Ogni giorno siete un po’ di più.




Perché leggere a un bambino di sei mesi?

«Ma perché mai dovrei leggere un libro al mio bambino di sei mesi? Cosa credi che capisca?». Sono domande che purtroppo sento abbastanza spesso, ma di certo non dalla cara Raffaella che oggi mi ha gentilmente ospitata qui per parlare del tema della lettura con bambini anche molto, molto piccoli.
Mi presento, sono Romina Tamerici e potete trovare qualche riga sul mio conto alla fine di questo post. Oggi cercherò di spiegare perché vale la pena di cominciare a leggere ai bambini anche a soli sei mesi, come tra l’altro suggerisce l’associazione Nati per leggere che si occupa di promuovere la lettura per i bambini dai 6 mesi ai 6 anni.

Ovviamente, un bambino di sei mesi non può capire una storia complessa e probabilmente nemmeno una trama semplice. Non serve che il libro abbia una trama, a questa età si possono usare libri che contengono solo immagini o poche parole e sono ripetute oppure con filastrocche che rendono la lettura più musicale.

Motivi per leggere con i bambini piccoli
La lettura con bambini molto piccoli non serve certo a trasmettere conoscenze o insegnare a leggere (forse non dovrebbe mai diventare un mero mezzo di erudizione, la lettura dovrebbe sempre essere un piacere), ma è comunque importante per vari motivi:
-          Crea un’abitudine alla lettura. In genere i bambini, che entrano in contatto con i libri da piccoli e hanno genitori appassionati alla cultura, sviluppano un maggiore amore per i libri negli anni successivi, se la scuola o i genitori stessi non combinano dei pasticci [Il 30/06 sul mio blog ci sarà un post su questo argomento, incentrato però sui bambini più grandi, nel caso qualcuno fosse interessato].
-          Aiuta a sviluppare il linguaggio. Sentir parlare e leggere può aiutare a sviluppare precoci competenze linguistiche e in seguito un ampliamento del vocabolario (può perfino aiutare l’apprendimento della lettura, ovviamente in anni successivi).
-          Sviluppa la fantasia. Nei libri i bambini vengono a contatto con realtà e mondi diversi, anche quando sono così piccoli. Conoscono parole che nella realtà quotidiana non avrebbero modo di sentire e molte altre cose che stimolano il pensiero divergente.
-          Crea un legame. Leggere insieme per una madre (o un’altra figura di attaccamento primario) e un bambino può diventare una routine della giornata (nel senso buono e pedagogico del termine), un segno del loro legame. Quando i bambini crescono il “momento della fiaba”, se ben gestito, può aiutare ad affrontare paure e dimostrare affetto e cure.

Queste sono solo alcune ragioni per cui vale la pena leggere a un bambino anche di soli sei mesi, sono sicura che ne esistono molte altre.

Alcuni consigli per la lettura
Per rendere il momento della lettura ancora più speciale, vi lascio alcuni consigli.
-          Durante la lettura è meglio che il libro sia sempre visibile al bambino e indicare frequentemente ciò di cui si sta parlando. Ciò aiuta a creare un referente condiviso.
-          La vista nei primi mesi di vita non è perfetta, ma la distanza ottimale per mostrare dei libri ai bambini è quella di 20 cm dal loro viso. È infatti a questa distanza che i bambini anche molto piccoli riescono a mettere bene a fuoco. Questa distanza è stabilità dalla natura perché è quella che separa il neonato durante l’allattamento e il volto della madre. Tenere il libro a questa distanza permette al bambino di cogliere al meglio le immagini.
-          La lettura deve essere il più espressiva possibile, cercando di usare voci e toni diversi per tener viva l’attenzione del bambino.
-          La lettura non deve essere lunga, perché la soglia di attenzione dei bambini piccoli non è duratura. Se il bambino mostra segni di stanchezza, è meglio non insistere.

Una provocazione…
Se è vero che un bambino nasce con una vista poco efficace, il suo udito è perfettamente sviluppato anche prima di venire alla luce. Un bambino nel ventre materno è già in grado di sentire voci, musica e… storie! Ovviamente in questo caso non è importante che sia effettivamente presente un libro (tanto il bambino non ancora nato non lo può vedere…), ma non è mai troppo presto per cominciare. Questa è una provocazione, ma ricordate che un bambino appena nato è perfettamente in grado di riconoscere e discriminare la voce materna e quindi, se leggerete o parlerete con il vostro bambino prima che nasca, sarà una cosa molto positiva (si abituerà al suono della vostra voce). Sapete per esempio che se ascoltate di frequente una certa canzone (qualsiasi essa sia), il bambino una volta nato la ricorderà e la assocerà alla vita prenatale e ascoltandola si calmerà? Ci sono fior fior di studi sul tema! Ci sono tante filastrocche musicali molto simpatiche per bambini che si possono ascoltare e poi trasformare in storie, quando sarà il momento, dunque perché non approfittarne?

Conclusione
Bene, ora mi fermo, non voglio dilungarmi troppo. Tutte queste informazioni vengono da studi di pedagogia o psicologia dello sviluppo e da alcune letture sul tema che mi interessa e coinvolge molto. Altro interessante materiale lo potrete reperire sul sito di “Nati per leggere”. Sicuramente in un post non si può esaurire un argomento così vasto, ma spero di avervi fatto venir voglia di leggere un po’ con i vostri bambini, di qualsiasi età essi siano! Se avete domande o volete raccontare la vostra esperienza, io sono qui per ascoltarvi!

Grazie, Raffaella, per l’ospitalità. È stato davvero bello venire ospite nel tuo blog!



Romina Tamerici, autrice di “Voliamo Insieme con la Fantasia” e “La mia amica Clorinda”, scrive poesie, racconti, favole per bambini e brevi romanzi. Alcune sue poesie sono state inserite in antologie di premi letterari nazionali. Frequenta il secondo anno del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e ama fare animazioni creative per bambini. Da luglio ha aperto anche un blog per parlare dei suoi libri e di scrittura in generale.

Portami con te

Ti ho portato con me ad ogni matrimonio.
Ad ogni altare raggiunto sei stato con me.
Eri con me quando il padre di ogni sposa ha messo le mani della propria figlia dentro le mani di un uomo diverso da lui.
Ti ho portato con me nelle sale operatorie dentro cui sono caduta, quando mi hanno asportato un’appendice, una vena, quando mio figlio è scivolato da una provetta a me.
Ti ho portato con me il giorno della mia laurea quando voltandomi tra le persone care tu, non c’eri.
Ti ho portato con me lungo ogni chilometro corso, nelle impronte lasciate dai miei piedi, nelle ombre delle miei mani.
Ti ho portato con me come una zavorra, come un pugno, come un peso. Leggero come l’aria di certe sere d’estate o come l’ironia di un film di Charlot.
Ti ho portato con me, con una scarpa e una ciabatta, dentro una macchina d’oro.
Ti ho portato con me di giorno e di sera, accompagnandoti tra i ricordi che ho di te, tra i difetti che da te ho ereditato, nella generosità che il tuo cuore mi ha lasciato.
Quando mi accadrà qualcosa, portami con te come io porto il ricordo di tuo nonno.

mercoledì 20 giugno 2012

Un libro per mio figlio


Ho sempre scritto; diari, fogli, pagine, rotoli di carta igienica. Poi quando un abbandono mi ha reso fragile e rotta ho scoperto che scrivere aveva un senso, dava significato alle cose che sentivo.  Destrutturata e persa ho cercato, dove non avrei mai pensato scoprendo che non ero finita.
Ho ritrovato un'altra me, una cui piaceva scrivere. Una che sentiva di nuovo e scriveva delle cose perse delle cose ritrovate di quelle cercate e di quelle mai trovate.
Ho all’attivo due libri, vari premi vinti, un fidanzato in meno e un marito in più.
Non potevo non raccontare del viaggio che mi ha portato verso mio figlio.
 Così per il suo primo compleanno la sua mamma gli ha regalato un libro. 
Cioè il libro, che libro ancora non è perché è in cerca di un editore che lo pubblichi.
“In viaggio verso te. Storia di una procreazione medicalmente assistita” è il racconto di una maternità in provetta.
Racconta un viaggio, verso e dentro la vita, il mestiere di una cicogna tecnologica e quello di due aspiranti genitori. Parla di fecondazione medicalmente assistita a tratti con la leggerezza tipica dell’ironia che serve a mandar giù diversi rospi tra cui quello dell’infertilità. 
E’ la mia storia, ma è anche la storia di ogni donna più vicina agli anta che agli enta che si metta in viaggio verso il proprio bambino o verso l’idea che ha della vita con  o senza di lui.

 Spiego a mio figlio, con tutto l’amore di cui sono capace, com’è stato concepito, le tappe di un percorso duro come il granito, i vuoti dell’anima e i fantasmi nello stomaco, un cammino fatto d’ignoranza e di buchi sulla pancia, l’incoerenza della legge (n.40/2004) che regola la fecondazione assistita, la vecchiaia di un paese per vecchi, il dolore di chi non riesce ad avere figli, le umiliazioni, il coraggio di una maternità voluta con le unghie e con i denti, della vita e del suo contrario. 
Parla di amore, dei suoi limiti e dei suoi confini.
Di come sia possibile spostarli per fare spazio ai sentimenti.

E’ una roba a tre, l’essere madre, non esserlo, l’essere madre di mio figlio. Del prima e del dopo lui, di un anno di vita con qualcuno che è altro da te, ma è il tuo prolungamento.

Racconta di crostatine spalmate sul divano, di giorni, di notti, emozioni, odori. Sensazioni, pannolini, bagnetti, dentini spuntati, ba-ba-ba e silenzi, sguardi infiniti.

Perché questo libro? Perché la procreazione medicalmente assista tocca aspetti ritenuti ancora dei tabù e ritengo che, il fatto di parlarne, possa solo spianare gli ostacoli di un cammino ancora difficile e pieno di buche e dossi; perché la difficoltà a procreare non venga più accompagnata da sentimenti come la colpa e la vergogna e perché i giorni delle iniezioni, dei monitoraggi, delle ecografie, dei prelievi, dell’acido folico e dei farmaci in frigo, siano, per mio figlio, giorni come altri.
Questo era vero ieri mentre o scrivevo e lo è oggi dopo aver letto le storie di molte di voi.
 
In viaggio verso te è un singhiozzo, un singulto. Un’urgenza letteraria fatta di protezione. E’ il tentativo di fornire a un bambino gli strumenti per affrontare una vita in bilico e il disincanto della realtà, suggerendo principi e bisbigliando racconti e sogni, nell’unico modo in cui una madre come me conosce. 
Scrivendogli.
Ho contattato un‘agenzia letteraria perché pare sia indispensabile averne una altrimenti le grandi case editrici non ti si filano. Oggi mi hanno risposto dicendomi che il mio lavoro “non li convince”.  Ho letto e riletto la loro mail pensando che si fossero sbagliati che non era possibile che non gli piacesse cosa avevo scritto. Invece è così. Non li convince, quindi non mi rappresenteranno presso nessuna casa editrice. 
Beh, non vi nascondo che la delusione per il mio ego è stata cocente.
Poi ho pensato. Non vi convince?
E chi se ne frega!
E’ per mio figlio questo libro e per tutte le donne che dubitano del loro percorso. Per una Chiesa bigotta e ottusa che lorda l’amore e vede il peccato dove non c’è. Per un paese che non avvolge ma spinge le coppie ad andare altrove. E’ per combattere sentimenti come la colpa e la vergogna, perché nessuna debba sentirsi sola o cattiva provando sentimenti contrastanti di invidia e tenerezza.
E' per ognuna di voi.
E' per ogni bambino nato grazie ad una pma.
E' per ogni sogno.
E' per Daniele.
Non mi fermerò qui.
Mio figlio avrà il suo libro, in un modo o nell’altro.

lunedì 18 giugno 2012

1005

I vostri commenti alimentano il mio volo.
Nessuno vola senza il soffio altrui, l'aiuto dei venti, il dono inatteso delle parole regalate.
Ho aperto questo blog il 2 Maggio scorso.
Grazie di essere stati qui.  
1005 volte grazie.

domenica 17 giugno 2012

Partenze




Chissà perché prima di una partenza si sente sempre quello strano sfarfallamento al centro dello stomaco, qualunque sia la meta.
Chissà perché mi riduco a fare le valige sempre all’ultimo momento.
Chissà perché ci si porta dietro sempre troppo o troppo poco, quasi che il portare il numero giusto delle cose significhi creare le condizioni per non tornare a casa propria.
Ficchiamo dentro la valigia i vestiti che normalmente non portiamo, quelli che “li metto solo in vacanza”, quelli che pensavi di aver buttato, quelli che hanno più bisogno di evasione di te tanto sono malconci. 
E che dire di quelli che li guardi e pensi: ”Ma davvero sono miei? Ma dove pensavo di andare con questi? 
In vacanza ovviamente”.
E’ come se partendo ci si sdoppiasse. Una parte resta a casa, fa la vita di sempre ancorata alle sue radici, alle solite abitudini, alla medesima routine, l’altra, quella vestita strana che tanto non la conosce nessuno là dove va, salta, senza paracadute, senza alcuna certezza, va.
Mi piace questa cosa dell’andare ma mi piace anche quella del ritornare con le foto dei posti che ho visto con il cuore gonfio di altra vita e la conoscenza di un altro pezzettino di mondo oltre il mio. 
La verità è che sono contraddittoria a intermittenza. Amo viaggiare ma non mi piace partire, mi annoia restare ma mi conforta ritornare. 
E’ possibile che viaggiare infonda l’idea della possibilità di poter cambiare vita di pensare che potresti sempre fare O ESSERE QUALCOSA O QUALCUNO ALTROVE, SE QUI NON RIESCI.
Sarà per questo motivo che sento sempre le farfalle nello stomaco prima di partire.
E per voi, cos'è viaggiare?

giovedì 14 giugno 2012

Il mare che aspettavo (dedicato a chi aspetta ancora)


Il mare che aspettavo profuma di emozioni.

La luce delle fate si specchia nel cuore delle sirene e i cristalli che vedi sono i riccioli dei loro capelli. Dipende se c’è il sole o se piove. Se c’è sole diventano boccoli luminosi, se piove, la collera li trasforma in onde minacciose.

Ma oggi c’è il sole.

Il mare che aspettavo spruzza la gioia. Quella che si prova guardandoti sulla sua riva.

Cammini incerto verso la spiaggia, lungo la costa, lungo i pensieri.

Ci sei dentro quei pensieri, ogni minuto, ogni istante, ogni passo con o senza di te, a te continuamente mi riporta. Sempre e per sempre.

Ripercorrerei la stessa strada mille volte se solo servisse, a piedi nudi o sugli spilli, saltellando se necessario, qualunque cosa per raggiungerti di nuovo.
Il mare che aspettavo è avvolto da una strana luce. E’ una luce diversa da quella che illuminava timidamente i giorni di ieri. I giorni in cui l’assenza bruciava come fuoco uscito dalla bocca del drago. L’ha attraversato la tua mamma quel drago, passandoci in mezzo, dentro il bosco cadendo sui rovi. Fa niente. Ha raggiunto il mare.



Il mare che aspettavo ti ha nascosto. Eppure eri lì, eri la mia conchiglia.

Vedo le storie che contengono le bottiglie portate dal mare. Le storie dipinte sulle pareti di questo giorno speciale. Le storie sopra di chi cerca ancora, le storie sotto di chi si è arresa, le storie intorno di chi muore ogni giorno un po’e quelle che volano insieme ai gabbiani. Ad uno in particolare dal manto bianco e dagli occhi vivaci che risponde allo strano nome di Jonathan, Livingstone Jonathan.
Che fai, lo vedi anche tu? 

E’ un gabbiano dalle piume candide Jonathan che si esercita ad imparare a volare in modo perfetto. Si esercita tanto nel volo, giorno dopo giorno, finché un giorno muore e va oltre, in un luogo dove può volare più facilmente. Eppure, neanche lì è bravo come vorrebbe, nonostante tutto il cielo percorso, ha fatto solo un pezzetto di cammino verso la perfezione. Per anni rimane a volare e volare, ma il suo corpo gli è ancora d’intralcio e non riesce a volare con la velocità del pensiero, a superare il “qui e ora”.

Ci riuscirà, in un modo o nell’altro, cozzando contro le rocce così violentemente da rimanerne tramortito, ma raggiungerà il suo pensiero.

Non sempre riuscirai a raggiungerli i pensieri ma quelli che non riuscirai a sfiorare non avranno per questo motivo meno valore di quelli toccati. Quello che resti a pensare diventerà comunque una parte di te, diventerà te. Come un braccio, una gamba, un dito. 
 Perla della propria conchiglia.


E’ ora di andare adesso, di salutare questo mare tanto atteso, chiudere gli occhi e augurare buon viaggio a chi cerca ancora.

martedì 12 giugno 2012

Sono una mamma staccata


Il mio mondo è popolato da due categorie di donne cui d’estate se ne aggiunge una terza. Le due categorie si dividono in” quelle che” e in “quelle che non”. La divisione va interpretata in termini di filosofia di vita più che in termini assoluti.
 Perciò non potevo non rispondere alla sfida lanciata dalla staccata Luana Troncanetti, donna senza tacchi, aderendo all'iniziativa “Staccate vs Taccate”, provocazione che trovo illuminante per capire le varie sfumature dell’universo femminile.
 
Fanno parte di “quelle che” le donne belle anche il mattino, quelle con la piega perfetta anche quando fuori piove che Dio la manda, quelle che non sudano neanche dopo due ore di triathlon olimpionico, quelle che con la french manicure eviscerano un pollo e lo fanno ridendo, quelle che riescono a camminare sui sampietrini con tacco dodici portando in una mano, la torta al cioccolato rigorosamente fatta da loro stesse e nell’altra una borsa piccola, ma così piccola che a confronto la valigia di Barbie sembra un trolley.

“Quelle che” hanno l’eye-liner pure in spiaggia, il mascara intatto dalla mattina alla sera, mettono la cuffia quando fanno la doccia e indossano biancheria di pizzo.

 Appartengono a “quelle che non” oltre alla sottoscritta, quelle che non riescono a essere perfette neanche il giorno del proprio matrimonio, quelle che non intendono abbinare i pezzi sotto dei pigiama con i rispettivi pezzi sopra, quelle che non hanno la più vaga idea di dove vadano a finire i calzini spaiati, quelle che fanno del lucidalabbra un must, così va bene su tutto, quelle che ingrassano anche solo se respirano, quelle che le potresti spremere come un’arancia se fanno dieci minuti di cyclette e spesso indossano slip di un colore diverso da quello del reggiseno, ma solo per sbaglio.

 Ovviamente, “quelle che non”usano infilare i loro piedi dentro ballerine dalla suola larga e dalla punta rotonda, (perché se solo indossano una zeppetta sono poi costrette a chiamare i pompieri per tirarle giù di là). Inoltre, ma non ho prove a riguardo, sono convinta che “quelle che” figliano come coniglie mentre “quelle che non” hanno (come in quelle assurde statistiche dove non si capisce chi ha cosa), mezzo figlio virgola tre, diviso con un’altra. Forse a metà con la coniglia.
 

Detto questo, chi pensa che le ballerine siano delle scarpe orribili che non donano a nessuna donna, (tranne quando chi le indossa  è alta un metro e settantotto, ha le cosce di Elle Machperson detta per le sue misure The Body e possiede due stecchini al posto delle caviglie) si sbaglia.

C’è di peggio. Il peggio è rappresentato da quelle che indossano le birkenstock.

 Ringraziando il cielo questa specie si avvista solo nei mesi estivi, poi con il passare della stagione calda scompare o meglio indossa stivali e le scarpe in oggetto se ne ritornano dritte, dritte dentro le loro scatole, almeno in questo paese.

 Per chi non sapesse cosa siano le birkentock, le birkenau, come ama definirle mio marito (gli ricordano per bruttezza il campo di concentramento di Auschwitz) sono quei sandali anatomici dalla suola in sughero che sembrano zattere naufraghe in mezzo al mar. Il bordo è leggermente rialzato, così per renderle un tantino più femminili. Hanno un divaricatore modello infradito che dicano favorisca la deambulazione del piede ma pare che nessuna delle dita in questione conosca la  direzione del piede stesso.
Nonostante i produttori tentino in tutte le salse di rendere queste scarpe più aggraziate, mettendo fiori, aggiungendo fantasie, stampe o altro, queste per dispetto rimangono inguardabili. Nascono brutte e muoiono tali.

Hanno però qualcosa di speciale. Nel momento esatto in cui le indossi è amore a prima vista. Le metti e quelle ti avvolgono come un abbraccio diventando un tutt’uno con il piede e potresti anche farci le mille miglia. Ci potresti andare anche a letto se solo il tuo compagno non te lo impedisse. Come dice una mia cara amica, cari signori Birkentosk non aspettatavi una parcella per la promozione che vi sto facendo, tanto la pubblicità ve la faccio anche gratis. Mandatemi invece un nuovo modellino, uno a me e uno a mia cognata (resterà tale ancora per poco visto che suo fratello mi lascerà non solo per colpa delle scarpe) entrambe vi sosteniamo.
 
Vorrei precisare che non mettere i tacchi non è proprio una scelta di vita. A volte è proprio la natura a sconsigliartelo per inadeguatezza.

E non è che non metto i tacchi da quando sono diventata mamma. Non li mettevo manco prima.

Mi piacciono davvero, ma sulle altre.

M’immagino scendere le scale che dal secondo piano del mio appartamento portano al piano terra con mio figlio in braccio, in mano il guinzaglio del mio cane di trenta chili che si lancia giù verso il basso trascinandomi con sé, nell’altra il sacchetto dei rifiuti organici, tra i denti il passeggino, sotto il braccio rimasto libero la borsa, quella grande, quella che contiene l’altra metà del mondo e mi vedo ancheggiare arroccata su un tacco vertiginoso, strafiga come Victoria Beckham, o meglio come due di lei. Poi non so cosa accade. Prendo una storta, ruzzolo giù, arrivo carponi alla fine della scalinata (salvo il pargolo però, lui esce indenne dal capitombolo) con una caviglia rotta lividi sparsi e l’autostima ai minimi termini.

Le sneakers tutta la vita, se ne rimane. Non sarò femminile come la Beckham ma a pensarci bene è l’ultimo dei miei problemi!

venerdì 8 giugno 2012

H 24

Cercare un bambino per chi “diversamente fertile” si lancia in questo sogno, diventa un’attività a tempo pieno. Ovvero h 24.

Ben inteso, non è che uno si mette lì e prova  “fisicamente a farlo” tutto il dì. Nessuno possiede tanto tempo a disposizione! E’ l’dea che hai di lui, la voglia di concepirlo che pervade in modo totalizzante tutto il resto. Se ce ne rimane, di resto. Ventiquattrore su ventiquattro, notte e giorno. H ventiquattro, appunto.

E mentre cuoci il pollo, togli lo smalto, cuci il calzino, mentre parli con tua zia, mentre ti lavi i capelli, il suo pensiero è sempre lì. Fisso, costante, permanente. Te li vorresti strappare tutti quei capelli, uno ad uno, fino ad arrivare a staccarti  la testa, poggiarla sul comodino, per rimetterla al suo posto più tardi, sperando che la goccia cinese che ti scava il cervello smetta di gocciolare anche per solo pochi minuti.

Quando la voglia di fare un figlio esonda i margini delle tue rive, inonda tutto, straripa.

All’inizio credi che basti amarsi per concepire, poi pensi che forse ci vuole una spintarella da parte  dei signori  Ogino Knaus (quelli che hanno studiato il metodo che calcola il periodo di più alta probabilità fecondativa) così , tanto per essere un tantino più sicuri che tutta l’attività non sia solo divertente ma proficua. Dopo che neanche lo sprone dei due produce alcun effetto, viene la volta delle analisi. Poi segue quella dei monitoraggi, dell’’acido folico, delle ecografie, della stimolazione dei buchi sulla pancia, dell’incertezza. E non è che tu non abbia proprio niente da fare nel frattempo, anzi. E mentre le altre rimangono incinte solo guardandosi con i rispettivi compagni e tu declini inviti a feste con mamme e bambini, mentre ricacci indietro quei due tre litri di lacrime che ti rimangono appiccicate agli occhi, impastoiate insieme all’eye-liner, combatti contro l’istinto di non vomitare addosso all’ennesima deficiente che ti dice che in queste cose lo stress è fondamentale e che non appena ti rilasserai rimarrai incinta.
 
Questo avviene nell’arco delle dodici ore a disposizione per vivere la tua vita, mentre le restanti altre dodici le usi per rigirarti nel letto pensando alle dodici appena trascorse senza che sia successo nulla. H 24, appunto.

E mentre l’idea di tuo figlio continua a rosicchiarti la testa che non sei riuscita a riporre sul comodino, devi comunque andare avanti. Organizzare le vacanze, incastrarle tra le analisi, le stimolazioni e i prelievi. Fare la spesa. Mangiare, bere, sopravvivere a una vita così vuota che al confronto i buchi neri sono pozzi di vitalità. Devi comprare cose che non ti servono a niente, perché non ti serve nulla che non sia lui; devi evitare di fare delle figure da stronzi con gli amici più cari, fare cose che non ti sollevano, dire cose che non ti appartengono, devi fare, baciare, lettera, testamento.

E’ un attività a tempo pieno quella di cercare un bambino che non viene, mica scherzi. Non è che ti puoi distrarre tanto. Anche quando, sfinita e lacerata pensi di abbandonare l’dea perché accanirti sul tuo corpo o su una natura ostile ti rende più fragile di un foglio di cartapesta, l’idea di reinventarti senza di lui, di ritrovare il tuo compagno oltre quel progetto, non lascia spazio ad altro. Di nuovo H 24.

La fatica, la rabbia, la stanchezza si mescolano alle ore. Dolore quanto basta e minuti vuoti. Un binomio perfetto per una ricetta da gourmet.

Quindi cara amica mia, non sei pazza, non stai lentamente diventando folle, non stai perdendo la ragione.

E’ solo l’effetto h 24. Prima o poi passerà, quello che non distrugge fortifica.