lunedì 31 dicembre 2012

La fine e l'inizio.

La fine dell'anno mi veste sempre di disagio. Un senso velato di inadeguatezza mi coglie, misto a nostalgia.
Nonostante ci siano stati nella mia vita anni brutti, brutti e tristi, ho sempre avuto paura della fine.
Malgrado la fine coincida sempre con nuovi inizi.
Nonostante le possibilità che i nuovi inizi diano.
Sebbene le infinite direzioni che possiamo prendere. Tutti, senza distinzione alcuna.
Eppure, conosco quello che lascio e non conosco quello che andrò ad affrontare e questo mi spaventa.
Tutta questa enfasi, poi, intorno al passaggio da un'anno ad un'altro, mi rende vulnerabile.
Il mio capodanno è fatto di mani intrecciate a quelle di chi amo e basta. 
Senza clamori, senza botti. Senza lampi nel cielo.
Come dovrebbe essere ogni passaggio, una lenta passeggiata su un ponte di legno sopra il ruscello di un bosco o su un mare piatto ed azzurro con il sole tra i capelli ed il vento che sussurra calore.
Qualunque passaggio per, verso, dentro o fuori la vita dovrebbe essere così.
Non sarà così, invece. 
Sarò solo con una parte di quelli che amo e so già che alla mezza notte il mio cuore si strapperà.
Non mi importa del mio.

Che il nuovo anno porti solo cose belle.
E se domani, spazzando le strade, l'omino addetto dovesse ritrovare per terra dettagli sgradevoli, pezzi di vita,  sogni non realizzati o semplicemente giorni passati che fanno la somma di emozioni che non torneranno indietro, spero che abbia rispetto per ciò che è stato buttato.
Perchè quello che va, fa sempre posto a quello che deve venire.
Vi stringo e vi abbraccio, mani nelle mani.


venerdì 28 dicembre 2012

Il regalo non incartato.

Mi sono dovuta allontanare durante questi giorni di cannella e zenzero perchè è così che doveva essere. Dovevo stargli accanto con il corpo e con la testa, una testa sgombra, libera da pensieri bui. Lui non conosce ancora il disincanto della realtà, la fragilità dei sogni ed il tradimento. 
Non sa che sapore ha l'amaro delle cose perdute. 

"Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non poter mai avere un amico con me che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Sono stanco soprattutto del male che gli uomini fanno a tutti gli altri uomini. Stanco di tutto il dolore che io sento, ascolto nel mondo ogni giorno, ce n'è troppo per me. È come avere pezzi di vetro conficcati in testa sempre continuamente. Lo capisci questo? ("John Coffey. Il Miglio verde")
 
A volte, almeno nei giorni di magia, mio figlio si aspetta il meglio da me. Solo favole e magia.
E' cosi che deve essere. Almeno fino a quando saprò trasformargli la realtà e questo gli sarà sufficiente. Almeno ancora per un altro pò. 
Questo è il mio regalo non incartato.
Scusate se non ci sono stata.

venerdì 21 dicembre 2012

Ahhhhhh

"Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore"
                                                                      Berthold Brecht

Ragazze/i non ci credo ancora.
Il libro va in stampa il 28, sempre che il mondo non imploda!
Ahhhhhhhhhhhh

martedì 18 dicembre 2012

Il testimone


Loro camminano. Lui ogni tanto si gira e la guarda, lei lo oltrepassa con un amore nuovo che pensavo, sbagliando, fosse destinato solo a me, sua figlia.

Hanno sguardi pieni e colmi di una reciproca consapevolezza: Lei, è per lui certezza, Lui è per lei futuro e amore e domani. Intorno, tutto e niente, loro si bastano. Loro giocano e ridono e si perdono tra la costruzione di nuova memoria e la pila dei ricordi vecchi che si fa gradino su cui appoggiarsi per crescere. Lei gli parla, gli racconta, inventa sogni e storie che ho già sentito o solo immaginato. Lui ride sereno e ritrova in lei parti di me. Parti familiari, morbide e calde come la brace. Sono nodo e sono viluppo. Sono occhi negli occhi, attimi irripetibili, frangenti di amore che restituiscono il tempo che non torna e lo congelano nel sempre.

Vorrei che lui ricordasse ogni cosa dei momenti passati con la nonna e che quel “per sempre” gli bastasse quando lei non ci sarà più, quando avrà bisogno di cercarla e di trovarla in se stesso.

Per lui, Lei ha fermato la vecchiaia, spolverato la fantasia, ha reso giovani ossa e animo, per lui, lei è più bella che mai.

Mi commuovo guardandoli camminare.

Lui si volta dal passeggino e la guarda e ci vede dentro il mare e le stagioni che per lui non passano e sa che lei c’è.

Quando cade.

Quando ha paura.

Quando lo va a prendere all’asilo e lui le corre incontro piangendo dall’emozione e sembra dire agli altri bimbi: vedete, vedete come è bella mia nonnina, lei mi prende e mi porta via di qui. A casa, tra le sue braccia, a casa tra le mie radici.

Dove niente è dolce come il suono della sua voce, niente profuma come l’albero che ha fatto per me.

Lei c’è.

Lei aveva chiesto agli angeli di mandarle il bambino più bello, chissà se lui aveva chiesto la nonna più dolce.

Lei c’è.

Quando io non ci sono. Come un mio prolungamento, una roccia che travalica anche me. Oltre me.

E lui è dentro ogni suo pensiero. E lentamente i gesti, le parole, i sentimenti si fanno passaggio, lui terminerà quello che lei ha iniziato.

Occhi negli occhi. Occhi di lui che vede cose mai viste, occhi di lei che attraverso lui vede cose che non vedrà.

Grazie mamma per essere la nonna di mio figlio, tuo nipote.

Questo post partecipa all’iniziativa di Il bambino di Donna Moderna "Il ruolo dei nonni".http://bambino.donnamoderna.com/blog-tank/

lunedì 17 dicembre 2012

La dolce vita


Torno al mio lavoro, alla mia routine, alla mia vita, al mio blog, dopo due giorni di ferie e un week end nella capitale.

Dopo tanto, tanto tempo, ci siamo concessi un mini viaggetto a Roma.

Abbiamo girato in lungo e in largo per le vie di Roma, con il naso all’insù e con la cartina in mano come tre turisti per caso. Uno grosso, l’altro piccolo e in mezzo, io. Ex piccola, tendente al grosso!

E’ stato stancante, faticoso ma bellissimo. Perché prendere al volo un treno, anche se percorre poca distanza, immergersi in una realtà diversa dalla propria, dormire sotto coperte diverse, rinvigorisce il cuore, a volte. Alimenta sogni sbiaditi, colora di rosso e di porpora.

Dimentichi a casa i problemi, appendi nell’armadio le cose a metà, ti rilassi e percorri ciottoli non tuoi. Roma trasudava opulenza dietro lo sfarfallio delle luci degli alberi di Natale, quell’opulenza tipica dei nobili in declino. Di quelli che si sono giocati tutto nella vita e gli resta solo il titolo, per poco ancora.

Si è messa su il vestito più bello, quello delle feste e come la migliore delle first lady, ha giocato la sua parte. Bellissima, pigra, esagerata. Fuma una lunga sigaretta dal bocchino retrò.

Abbiamo passeggiato tanto, troppo, lungo le vie, sotto una pioggia che lavava le incoerenze di un anno bislacco. Anche lui stancate, sfiancante, irripetibile.

Passi lunghi i nostri e brevi i suoi, occhi pieni e risate dietro ai finestrini del treno.

Sonni profumati e palazzi barocchi e mercatini e fontane e bellezza e il primo incontro con un Babbo Natale rimasto incantato dalla specialità di un bimbo meraviglioso.

I saltelli su di un letto diverso, la bocca spalancata per un museo.

Mi ero dimenticata che si può ridere davanti ad una birra, mi ero dimenticata l’eccitazione nascosta in un trolley, l’acido lattico nelle mie gambe dolenti e quanto amo viaggiare e tornare.

Per ora è stato solo un week end ma domani potrebbe essere un deserto, un oceano, una lingua di terra vicina alla fine del mondo, con l’inizio nel cuore.

P.s.

Per chi è in zona, vi consiglio di visitare le Domus romane di palazzo Valentini http://www.palazzovalentini.it/index.php?lang=ritrovate nel palazzo della Provincia di Roma. Un viaggio attraverso il tempo reso possibile grazie alla ricostruzione multimediale e alla tecnologia. Bellissima esperienza. Della serie, quando la divulgazione diventa cultura e l’arte accessibile a tutti. Perché la bellezza non sia appannaggio solo di alcuni ma un inno alla vita in tutti i suoi sensi.

mercoledì 12 dicembre 2012

Dirlo ad alta voce


«Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle, le cose belle non succedono».
Ernest Hemingway

E invece le cose belle succedono e quando succedono, le devi gridare. Succede che quando meno te lo aspetti, quando hai finito le lacrime e hai gli occhi pesti dallo strazio, riemergi.

Succede.

Succede che le macerie diventano i mattoni su cui ricostruire, che la polvere e la ruggine dell’animo siano spazzate da nuova magia, che dallo stomaco rinascano farfalle.

Succede. Perché la gente ce la fa. Perché le persone hanno imponderabili risorse e la vita infinite possibilità.

Succede.

Voglio credere che succeda e gridarlo quando accade.

lunedì 10 dicembre 2012

Premio I love your blog


Romina http://tamerici-romina.blogspot.it/mi ha assegnato il premio I love your blog con questa motivazione “Nomino Mammamimmononsolo perché Raffaella Clementi nel suo blog parla della sua storia di vita che merita di essere conosciuta e lo fa con una forza poetica tale da non lasciare mai indifferenti”.

Ora, io non so se la mia vita merita di essere raccontata, con molta probabilità no, ma il fatto che una scrittrice esordiente giovane e preparata, dotata di talento come Romina mi dice che racconto la vita con una forza poetica che non lascia indifferenti, beh, mi riempie il cuore di orgoglio.

 

Il premio viene va assegnato a blog che hanno meno di 200 followers che sono ritenuti interessanti e ricchi di spunti creativi, ma anche racconti di vita di belle persone, piacevoli e divertenti da leggere.

 

Nomino quindi :

-          Barbara Vellucci http://lamiavitadopote.blogspot.it/di La mia vita dopo te per la forza ed il coraggio che mette quotidianamente per vivere una vita oltre il cancro. Perché irradia sete di vita e tutti dovrebbero essere contagiati dalla sua bellezza;

-          Antonella Vi di I colori dell’amorehttp://coloridellamore.blogspot.it/, perché nonostante Mattia, il suo bimbo down abbia un terzo cromosoma, l’uno rende speciale l’altra. La specialità non sta nella sindrome ma nel loro legame inscindibile fatto di tutti i  colori dell’arcobaleno;

-          Ad Andrea di luoghi non luoghi http://luoghinonluoghi.blogspot.it/ perché mi piacciono i poeti moderni e ritengo che l’ironia sia sinonimo di intelligenza.

Unica clausola per il premio è rispondere a una piccola intervista.

Breve intervista. Un, due, tre, via:

 
1. Qual è la tua rivista preferita?

La santa befana ci abbona ogni anno al National Geograpich. Speriamo che l’abbonamento arrivi anche per il 2013.

 
2. Qual è il tuo cantante preferito?

Dipende dall’umore. Felice Ben Harper, triste De Andrè, mediamente triste, altro.

 
3. Qual è il tuo prodotto make up preferito?

 Sono scura ma ho la pelle di una  che sembra sia oltrepassata da una settimana. Quindi fondotinta per uniformare il colorito cadaverico.

 
4. Qual è il tuo film preferito?

Il paradiso può attendere.


5. Qual è il/la tuo/a youtube-guru preferito/a?
Momentaneamente Hippo and the dog. Non per mia scelta, ovviamente.

 
6. Dove ti piace vivere?

Dove sono. Ma in una casa più grande, con una grande giardino e possibilmente spazi enormi.

 
7. Quante scarpe possiedi?

Troppe. Ma poi metto sempre le stesse.

 

8. Qual è il tuo colore preferito?

Nero. Blu. Grigio.

Na’ botta de colore,neh?

 

9. Indica i tuoi tre cibi preferiti

 
La pizza direi, anche se è nemica della donna. Quella magra soprattutto. Le omelette ai funghi che prepara mio marito e  il tiramisù.
E ora passo il testimone.......................

 

 

venerdì 7 dicembre 2012

Caro Babbo Natale


 
Caro Babbo Natale,
ammesso che i Maya prendano una cantonata e ci facciano arrivare al 24 dicembre indenni, siccome sono stata buona, quest’anno vorrei che:
 
-          mi portassi indietro la mia taglia 42, non una 46 spacciandola per una 42, ma proprio una 42 e soprattutto che mi aiutassi a rientrarci dentro, come un tempo;
-          quando ti chiedo di fermare la violenza sui bambini, sugli animali o sui vecchi, nel mondo, tu non decida di risolvere il problema alla fonte sfoltendo il loro numero con stragi, guerre e malattie, insomma, decimandoli;
-          la magia di certi amori, certe amicizie, certi legami, riscaldi ancora e ancora e ancora;
-          mantenessi intatto lo stupore di mio figlio, la sua risata, i suoi occhi puri. Che gli renda lieve l’affanno di un addio o sopportabile una delusione, che dell’altro giunga a proteggerlo dove non posso arrivare io;
-          Berlusconi ci faccia il piacere di starsene dove sta, che Renzi si renda conto che è sbagliata la parte in cui sta e che forse dovrebbe andare da quella in cui si trova Berlusconi e che non vengano più invertite le parti in generale, che quando succede non sai più da che parte stare;
-          inviassi meno sfide per i giovani, che certe volte il posto fisso e monotono gli piace tanto, anche se non possono dirlo. Ma anche ai meno giovani;
-          mantenessi i miei familiari in salute, emotivamente e fisicamente attivi, vive le loro passioni, colmi i loro vuoti, vicini, presenti, insieme;
-          l’uomo il cui sguardo pesa grammi infiniti di principi e fini mi veda ancora come la regina del suo cuore, nonostante la taglia 46, nonostante la sbadataggine, malgrado le rughe che potresti, a tuo piacimento, anche far svanire, sempre se puoi;
-          Casey Stoner ritornasse sulla sua decisione e tornasse a correre il moto GP almeno per un altro paio d’anni. Non me ne vogliate, io, adoro questo pazzo ragazzo australiano dalla riservatezza folle e dalla velocità innata. Mi piace da impazzire;
-          non venga mai meno la forza e la voglia di capire gli altri, gli ultimi, i diversi, di sentire, di comprendere. Di non provare più vergogna per il fatto di far parte di un’umanità sporca, lorda e porca e di perdere un Dio che non salva e di trovarne uno che culli;
-          portassi più coperte, che nei canili i cani sentono freddo; più lavoro che nelle case la gente ha fame; meno armi che fanno un gran casino. Se puoi stampa un po’ più di questi foglietti di carta con i quali ci si comprano le cose e distribuiscili in modo diverso da quanto hai fatto fin’ora che, se non ti arrivano letterine da parte dei bambini, siriani, cambogiani, palestinesi, israeliani o da parti della terra che stanno in culo al mondo è perché senza questi foglietti non si possono comprare neanche la carta per scrivertele le letterine e gli stiamo rubando anche la polvere con cui potrebbero soffiarteli nelle orecchie, certi desideri;
-          visto che la letterina è la mia e posso chiederti quello che voglio, venga pubblicato il mio libro, abbia tanto successo, così da farci tanti soldi, così tanti da permettermi di lasciare il lavoro, godermi mio figlio, adottare mille bambini, comprarmi la casa da sogno che desidero in riva al mare con un giardino immenso in cui accogliere tutti i randagi del centro Italia, compresi gli umani, che tanto potrei metterci anche delle dependance a farli stare al caldo nelle giornate in cui fa sto freddo del c…o palla;
-          portassi sollievo a chi naviga nel dolore;
-          un perché ad Anna e Fabio e una speranza;
 
E se davvero vuoi rivedere Bambin Gesù, portami tutte queste cose, all’angolo della strada tra le 23.55 e le 24 del 24.12.2012 e mi raccomando niente polizia…


mercoledì 5 dicembre 2012

Informazioni di vitale importanza

Trovo che incappare in stupidi viluppi mentali, di notte, sia poco salutare, specialmente se sei in debito di sonno da circa due anni e la tua memoria freni davanti ad informazioni la cui assenza è del tutto trascurabile.

La memoria trattiene strane cose e ne lascia andare altre.
Vi capita mai di scordare nomi o cose ed entrare in un loop mentale che ti sembra che, se non ne vieni a capo, il mondo potrebbe crollare?

A me sì. E quando questo accade, sarei disposta anche a svegliare la mia amica all’altro capo del mondo, non badando al fuso orario, o alzarmi in piena notte e suonare a mia madre per chiederle:
“Scusa, ti ricordi che nome ha...”

Per evitare che vi mandino a quel paese, vi do delle dritte.

Non si sa mai che vi tornassero utili.
 
Le nove renne: Comet, Cupid, Vixen, Dancer, Prancer, Blitzen, Dasher, Donder e Rudolph.

I sette nani: Dotto, Brontolo, Mammolo, Pisolo, Eolo, Gongolo, Cucciolo.

I sette vizi capitali: Superbia, Avarizia, lussuria, Invidia,Gola, Ira, Accidia.

I dieci comandamenti: Non avrai altro Dio all'infuori di me; Non nominare il nome di Dio invano; Ricordati di santificare le feste; Onora il padre e la madre; Non uccidere; Non commettere atti impuri;Non rubare; Non dire falsa testimonianza; Non desiderare la donna d'altri;Non desiderare la roba d'altri.

Da notare che la bestemmia è più grave dell’assassinio nella scala delle priorità, ma tant’è.

I tre moschettieri: Athos, Porthos e Aramis, a cui poi si aggiunge il protagonista di Alexandre Dumas  nel 1844, D'Artagnan.

I componenti della smorfia: Massimo Troisi, Lello Arena e Enzo Decaro.

Trio Aldo, Giovanni e Giacomo: Aldo, Giovanni e Giacomo!
N.b.
Il nuovo layout è solo per il mese di dicembre, poi Mammamimmo torna ad essere il blog di sempre.

martedì 4 dicembre 2012

Modalità gufo. Post ad alto contenuto di parolacce.


Tanto per condividere…siamo in modalità: Papà ha detto gufo!
-          “Che culo”.

-          “Schhh che ripete tutto”.

-          “See, ma dai.  Mica avrà capito”.

-          “Cu-lo, cu-lo, cu-lo”.

-          “Ecco, appunto”.

-          “Amore di papino, papà ha detto gufo. Hai presente l’uccellino, quello con il becco, e le ali, e i grandi occhi che di notte vola”.

-          “Vo-la, vo-la, vo-la-vo-la”.

-          “Sì, vola. Bene hai capito".

-          “Vo-la, vo-la, vo-la”.

-          “Si amore. Vola. Il gufo vola.

-           “Vo-la, vo-la, vo-la”.

-          “Va beh, papà ha detto culo.

Un nostro amico ha suggerito di abbinare sempre una parola che segue alla parolaccia che scappa, tipo c…o palla, o m…a pappa in modo che il bambino ripeta solo la seconda e dimentichi presto la prima.

Bene. Sappiate che non funziona.

La nuova imprecazione a casa mia è:cazzo palla.

 

 

 

lunedì 3 dicembre 2012

La cicogna tecnologica vola tutti i cieli


Vi avevo promesso una chicca, un’intervista. Vi avevo raccontato di aver contattato Simone Lenzi, autore di “La generazione” il quale mi aveva detto che sarebbe stato disponibile a lasciarmi un’intervista in questo spazio.

Così, emozionata e incerta ma determinata dall’impegno preso e dalla parola “data”, gli ho mandato l’intervista su cui sono stata circa due giorni.

Poi, il nulla. Probabilmente ci ha ripensato, forse è molto impegnato, forse è partito o la mia intervista gli ha fatto schifo. Sta di fatto che, nonostante io gli abbia più volte scritto, non ho ricevuto notizie. Neanche una mail per dirmi “Bella, ci ho ripensato, ora dacci un taglio che mi stai intasando la posta!”

Siccome odio il venir meno a un patto e mi trovo in imbarazzo per la mancata promessa, mi voglio scusare con voi.

Resta che, indipendentemente dal ripensamento in questione, comunque, “La generazione” resta un bel libro, Simone scrive molto bene e ci lascia vedere l’altro lato della pma, quello visto da un uomo, quello provato da chi è dall’altra parte della barricata.

Poi oggi leggo Lucy http://erolucyvanpelt.blogspot.it/2012/12/il-meglio-della-settimana-26.html che ci suggerisce come sempre il meglio della settimana e scopro quest’articolo che è una dichiarazione d’amore meravigliosa. S’intitola “Fare figli nell’epoca della riproducibilità tecnica”. http://www.internazionale.it/news/societa/2012/02/01/fare-figli-nellepoca-della-riproducibilita-tecnica/.
E siccome il mio blog si apre parfrasando “due anime, un cuore una provetta e una cicogna tecnica, ma molto tecnica” e siccome parlo spesso, anche nel mio libro che (fatemi gli auguri proprio l’altro ieri ho consegnato alla casa editrice la sua versione definitiva) non potevo non credere nella coincidenza.

L’articolo, bellissimo, è il racconto di una chance. E’ il racconto dell’esperienza di una pma, del passaggio “all’artiglieria pesante” come dice Paul Ford l’autore, dopo tre anni di ricerca di un bambino senza esiti positivi. Lo stile è giornalistico, schietto, sincero. Senza fronzoli né orpelli, ma con tutta la poesia di chi le parole le sa usare per andare dritto in fondo al problema, per toccare le corde giuste e farle vibrare al suono della bellezza.

La dichiarazione più bella che io abbia mai letto. Per chi l’amore lo intende in maniera profonda, totale, anche quando è scomodo amarsi, anche quando ti tocca masturbarti dentro lo stanzino di una clinica per la fertilità, perché quel figlio che cerchi lo cerchi quanto e come la tua compagna, o forse meno, ma è con e per lei che, hai intrapreso lo stesso viaggio, hai saltato lo stesso vuoto.
E, chiedendomi come sono le sensazioni di un uomo che vive la sterilità propria o della propria compagna, interrogandomi sulle differenze del sentire tra uomini e donne, mi rispondo così (estratto dal mio libro):

“Mentre scrivo, penso alla modalità con cui le donne approcciano alle cose e di come, tranne rare eccezioni, l’autolesionismo abbia cromosomi femminili.

 Mentre noi vogliamo qualcosa e non c’è spazio per il resto, gli uomini calano il loro desiderio dentro il resto cui non rinunciano. Per noi i desideri sono totalizzanti, ci pervadono, ci attraversano, si ficcano sotto ogni poro della pelle, negli angoli del cuore, scorrono con il sangue e nella pancia. Loro non lasciano invece nessun varco tra la propria integrità e la possibilità che un qualunque spiacevole evento li renda vetro. E non perché i desideri e i bisogni non siano i nostri stessi o la solitudine sentita differente dalla nostra. E’ solo diverso il modo in cui ci si difende dal frantumarsi.

Non so cosa possa sentire un uomo la cui fertilità sia compromessa. Immagino, ipotizzo, che sentirà la stessa identica frattura con l’ordine di Dio e combatterà per ritrovarsi nel caos. Ma non so, non so davvero, senza recriminazioni di genere, se il suo dolore sarà mai lutto, solitudine da se stesso, tomba il suo senso di generazione. Non so se smarrirà il rancore per l’aduterio della natura dentro il barattolo del miele, o se sarà più bravo di una donna diversamente fertile a perdonare l’inganno.

Non so se sarà bravo o no a gestire l’assenza di colore, l’assenza forte della proiezione di se nel futuro o semplicemente la mancanza di un figlio  cui non potrà dare vita”.

 
Oggi, invece, ho trovato un uomo (che non è il mio) che  finalmente mi ha risposto.

E risponde a chiunque metta ancora in dubbio la validità di una procreazione medicalmente assistita. A chi discute sulla  possibilità di speranza che una pma dà.

Non si vive senza la speranza.

A nessuno va negata la possibilità dell’illusione, la probabilità, l’auspicio.

A nessuno.

 
Paul Ford giornalista statunitense, padre di due gemelli. Questo articolo è uscito su The Morning News con il titolo “The age of mechanical reproduction.
Di seguito, riporto l'intervista perchè rimanga impressa nelle pagine di questo mio blog.

Prima bisogna compilare un sacco di scartoffie. Poi ti accompagnano nello stanzino. Ti danno una lista di istruzioni, alcune etichette adesive e un barattolino di plastica.


Quando spiego alle persone che cosa stiamo facendo, loro vogliono sapere della stanza in cui si “produce”. Io allora spiego che prima bisogna compilare un sacco di scartoffie. Che ti fanno una foto e ti controllano il documento. E poi ti accompagnano nello stanzino. Ti danno una lista di istruzioni, alcune etichette adesive e un barattolino di plastica. Il barattolino ha un coperchio verde scuro.

Nello stanzino c’è un videoregistratore. Mi diverto a trascrivere i titoli dei film, per poi riferirli a mia moglie e ai miei amici: Fighe tempestose #4, Pornoregine nere e Le furie del Sol levante. Tra le protagoniste di quest’ultimo, c’è una donna con i seni così gonfiati che sembrano luminescenti, come l’organo sensoriale di un pesce degli abissi scoperto da poco. Nessuno sta lì a cronometrarti, ma la percezione del tempo che passa ce l’hai. Ti metti al lavoro, tentando di non pensare a una serie di cose.

Le cose a cui non devi pensare sono i soldi che stai spendendo e il fatto che gli esperti non riescono a individuare quale sia il problema. Il mio sperma è migliorato, dopo che ho smesso con i bagni caldi e la Coca Light, e le tubature di mia moglie, nell’isterosalpingografia, sembrano a posto. Non devi pensare agli altri tizi che se lo stanno menando a un metro e mezzo da te, ma solo a evitare di far cigolare la sedia. E cercare di centrare il barattolo. Una volta finito, avviti il coperchio verde scuro, scrivi il tuo nome e quello di tua moglie sull’etichetta, metti tutto quanto in un sacchetto a chiusura ermetica e suoni l’apposito campanello. Arriva una donna, l’ennesima infermiera. Prende il sacchetto, lo solleva e lo osserva alla luce. Sulle scartoffie viene espressamente chiesto di non fare battute in quel momento.

La cosa peggiore che può capitarti, in quella stanza, è la “mancata produzione”. Ti avvertono in anticipo. Ci sono uomini che sono entrati ore prima e ancora devono uscire. Sono lì dentro che singhiozzano con le braccia anchilosate. Le mogli o le compagne se ne stanno in sala d’aspetto, di pessimo umore per via dei trattamenti ormonali. Nessuno mostra comprensione per un uomo che non riesce a produrre. Dovrebbero, ma no. E tu non vuoi certo essere quell’uomo. A me finora è andata bene. E, per ogni evenienza, sul telefonino ho sempre qualche video apposito.

Poi l’infermiera porta il sacchettino ermetico in una stanza piena di macchinari, dove il campione viene passato in una centrifuga. Io intanto raggiungo mia moglie, imbottita di sostanze chimiche che favoriscono l’ovulazione, in un ambulatorio. Un dottore con una siringa di plastica inietta il mio seme purificato e potenziato dentro mia moglie. E poi aspettiamo.

Tre anni d’attesa. Ovunque, intorno a noi, si muovono ondate di marmocchi saltellanti, eserciti di bambine, passeggini che cigolano sotto il peso del loro felice carico. Status di Facebook, email e biglietti natalizi arrivano corredati di immagini di infanti con le faccine imbrattate di avocado o di torta. Neonati su tappeti, neonati con berrettini. Inviti a feste per celebrare il lieto evento con la calligrafia in corsivo e i disegnini di cicogne. Bevendo una birra, un futuro padre – l’ennesimo – mi comunica la notizia, dicendo che lui e sua moglie stanno per avere il secondo o il terzo. Non sono felice per lui? E come potrei non esserlo? Per l’ennesima volta, tendo la mano, chiudo gli occhi e gli auguro tutto il bene del mondo.

Ogni giorno, almeno una volta al giorno, la nostra gatta Desdemona, una bella gattona con gli occhi verdi, arriva portando in bocca un paio di calzini puliti, come se fossero un gattino. Poi li lascia cadere a terra e si mette a ululare angosciata, nemmeno stesse per morire. Mi guarda, quindi ulula un altro po’. Allora io vado da lei, le accarezzo le orecchie e le dico: “Lo so, amore mio”. A volte, tornando a casa, di paia di calzini ne troviamo tre o quattro. Tre o quattro neonati di stoffa disseminati per la casa.

Mia moglie si è comprata cinque o sei paia di calzini da portare in clinica. Sopra ci sono scimmiette, ninja e baffi. Al dottore piacciono. Mia moglie infila i piedi nelle staffe sospese. Il dottore le infila degli oggetti nella vagina – non fanno che infilarle oggetti nella vagina – dopodiché dice: “Ma che belle, queste scimmiette”. Io sto a guardare, appoggiato all’armadietto che contiene le garze e le siringhe.

Di quello che stiamo facendo non parliamo con molte persone. Quando lo facciamo, alcuni ci dicono: “Be’, provarci dev’essere divertente”. Oppure: “Ma siete sicuri che lo state facendo nel modo giusto?”. Io rido con loro. In fin dei conti, quante volte mi è capitato di dire cose prive di tatto tentando di fare lo spiritoso? Non parlo delle forti dosi di medicinali che devo iniettare nelle chiappe di mia moglie, facendola gonfiare come un pallone di ormoni. E nemmeno accenno al fatto che i momenti di intimità siano diventati così meccanici e imbarazzanti da segnarli sul calendario del computer alla voce “farcire la signora”, con i promemoria rosa che a scadenze regolari spuntano sullo schermo.

Perdo peso. Vado alle feste e bevo troppo vino. Più di una donna mi appoggia una mano sul ginocchio e ride. Forse ai loro occhi appaio come un ragionevole compromesso. Diverse amiche lesbiche mi dicono che stanno tentando di concepire. Mi chiedo se non sia il caso di intrufolarmi nelle loro vite. Può interessargli lo sperma di un bestione nervoso e depresso che ha consumato cinque autocisterne di Coca Light?
Mentre mia moglie se ne sta con le gambe per aria e il dottore le esplora l’utero con la sonda dell’ecografo, mi vengono certi pensieri. Penso a quelle mani che mi sfiorano le ginocchia, e penso alle lesbiche.


Con mia moglie ne parliamo. Parliamo del protocollo che seguono alla clinica della fertilità. Parliamo del gruppo di sostegno che frequenta lei, e della mancata produzione. Parliamo di adottare, che è una faccenda costosa e complicata. Parliamo di gettare la spugna e vivere la nostra vita senza i fantasmi dei figli mai nati (i fantasmi più adorabili che esistano). Parliamo e parliamo, e intanto aspettiamo.

Tre anni, undici risultati negativi. Alla fine ci hanno detto: “Ok, ora sfoderiamo l’artiglieria pesante. Fecondazione in vitro. Bambini in provetta. Stimoliamo la produzione di ovuli con degli ormoni, li preleviamo e li mescoliamo con il suo sperma in un piattino. Poi trasferiamo gli ovuli fecondati direttamente nell’utero. Costa sui 15mila dollari. Ma ci sono delle offerte speciali”. Avevamo giurato di non arrivare a questo punto. Abbiamo chiesto: “È quello che si fa arrivati a questo punto?”. I dottori hanno annuito. E così siamo diventati persone che tentano di avere bambini in provetta. Pillola dopo pillola, puntura dopo puntura, stremati ma speranzosi. Seguendo il protocollo. Mia moglie ha prodotto gli ovuli, una decina di ovuli, appesi alle sue tube come grappoli d’uva. Aveva dolori e camminava con difficoltà.

La sera di Natale, mia moglie si è fatta fare un’ultima, enorme iniezione. Eravamo a casa di amici, ai quali abbiamo chiesto se per favore ci lasciavano usare un attimo la loro stanza per iniettare dei farmaci dentro mia moglie. Ci mancherebbe, hanno risposto. Come mi avevano insegnato alla clinica, ho riempito la siringa di gonadotropina corionica umana e l’ho picchiettata con un dito. Per aiutarmi a prendere la mira, un’infermiera aveva disegnato un cerchio sul culo di mia moglie. L’ago è entrato. Quella puntura avrebbe portato gli ovuli a maturazione. Di lì a trentasei ore esatte, si sarebbe aperta una finestra di un’ora, e di un’ora soltanto, per prelevare gli ovuli al momento giusto. È un intervento chirurgico. Ti fanno l’anestesia totale.

Il giorno dopo Natale non abbiamo fatto altro che aspettare l’indomani. Abitiamo abbastanza lontani, a Brooklyn, e l’operazione era fissata per le nove del mattino a Manhattan. Abbiamo deciso di mettere la sveglia alle cinque. Un’ora per prepararci, un’ora di viaggio, e due in più se qualcosa fosse andato storto. A mezzanotte siamo finalmente riusciti ad addormentarci.

Il 27 mattina ci siamo svegliati al buio e circondati da mezzo metro di neve. Le strade erano silenziose e bellissime. Agitato, sono corso a controllare il sito dei mezzi pubblici, ma la metropolitana circolava regolarmente. Casa nostra si trova a ottocento metri dalla fermata più vicina, e così alle 5.45 esatte siamo usciti, facendoci strada tra gli alti cumuli bianchi. Gli spazzaneve non erano passati.

Molti minuti dopo, arrivando alla stazione, abbiamo scoperto che i treni delle linee B e Q non circolavano. Non c’erano auto né taxi. La gente era confusa. C’erano autobus fermi in mezzo alla strada. Circolavano voci come in tempo di guerra a proposito di fantomatici treni. Stando al sito dei mezzi di trasporto che lentissimamente si stava caricando sul mio telefonino, i treni della linea G circolavano. Noi ci trovavamo a un chilometro e mezzo dalla fermata della G più vicina. Abbiamo fatto dietro front. Mia moglie si trascinava zoppicando, con i denti stretti, le ovaie tese e indolenzite, reggendosi la pancia.

Abbiamo aspettato la metro G, che non è mai arrivata. Nel frattempo si erano fatte le 8.30. Avremmo già dovuto essere in città. Mia moglie ha chiamato alcuni servizi di autonoleggio con autista, che però ci hanno rimbalzato. Alla fine qualcuno è venuto e ha detto: “Oggi a Brooklyn non circolano treni. Solo la linea A da Jay street, e basta”.

Ma Jay street si trovava a chilometri di distanza. Almeno due ore a piedi, anche senza mezzo metro di neve o una moglie zoppicante. La clinica, poi, stava a più di quindici chilometri, una distanza impossibile. Non sapevo più che fare. Prima di quel mattino, la vita era stata tutta programmazione, percentuali e ottimismo, ma in quel momento avevo perso ogni speranza. Appoggiandomi contro il muro della stazione, ho pensato alla scarpinata che ci aspettava per tornare a casa, alle migliaia di dollari in sostanze chimiche che lentamente defluivano da mia moglie, a tutta quella salute e a quegli ovuli sprecati. Ho pensato: “E non abbiamo nemmeno potuto provarci”.

“Ok”, ha detto allora mia moglie, furiosa e sfinita. “Facciamo l’autostop”. Io ero scettico, ma non ho detto nulla. Perlomeno era un piano. Attraversando alcuni isolati, abbiamo raggiunto la superstrada. Mia moglie si è dovuta fermare più volte, piegata in due a respirare. Ma ce l’abbiamo fatta.

È stata lei ad alzare il pollice. Era più facile che qualcuno caricasse una signora. Ci siamo avvicinati alle macchine che si fermavano all’incrocio. “Dobbiamo andare a nord”, dicevamo. La bufera di neve aveva ridotto New York ai quattro punti cardinali. Quasi tutti rispondevano con gentilezza: “Non vado da quella parte. Mi dispiace”. “Grazie lo stesso”, replicavamo noi.

Poi, però, sull’Ocean parkway è arrivata la decima macchina, una monovolume guidata da un signore anziano, un ebreo ultraortodosso con un gran barbone. “Dobbiamo andare in Jay street”, gli ho detto. “Ma va bene anche solo se ci avvicina un po’ a nord”. “Ma certo”, ha risposto lui. “Salite”. Ci siamo messi a sedere. Mia moglie, bianca come un cencio, aveva gli occhi semichiusi. “Grazie”, ho detto. “Grazie davvero”.

E siamo partiti in quel bianco gelido. Abbiamo rischiato diversi incidenti. Auto sepolte in mezzo alla strada, auto che procedevano nella direzione sbagliata, gente che vagava senza meta. Tratti di superstrada chiusi. Il vecchio sbraitava contro la gente per strada e sulle altre macchine, mentre la monovolume sbandava in mezzo agli incroci. Ci ha raccontato di essere andato in macchina al lavoro, e che una volta lì l’avevano guardato come se fosse matto e rispedito a casa. Poi ha tirato giù il finestrino per inveire contro il conducente di un autorimorchio che stava risalendo Smith street contromano. Avevamo davanti una persona intrattabile che ci stava facendo una gentilezza incredibile.

Dopo una lenta e pericolosa traversata per le strade a malapena battute di Brooklyn, con il tempo a nostra disposizione che si esauriva, il vecchio ci ha lasciato in Jay street. Ho aiutato mia moglie a scendere dalla macchina, a superare i mucchi di neve e a scendere nella stazione.

Poi è arrivata la A, l’unica metropolitana che circolava. E circolava veloce e regolare. Malgrado le ore perse in mezzo al nulla, siamo arrivati alla clinica con soli quaranta minuti di ritardo, il fiatone e gli occhi fuori dalle orbite, superando i cumuli di neve a balzi. Un’infermiera è venuta a prendere mia moglie e l’ha accompagnata verso il suo piccolo intervento chirurgico.

Non volevamo altro che quella possibilità. Vedendo che l’ansia mi stava facendo tremare la mano, mi sono ricordato che quella mano mi serviva. Dovevo produrre. Dopo avermi registrato, mi hanno accompagnato nello stanzino. Ho preso posto sul sedile di plastica della sedia, ma non riuscivo a pensare ad altro che al vecchio signore barbuto che ci aveva fatto attraversare Brooklyn. Non riuscivo a togliermi dalla testa il suo viso, soprattutto nel momento in cui eravamo scesi dalla macchina. Gli avevo detto: “La prego, li prenda”, porgendogli sessanta dollari, tutto quel che avevo nel portafoglio. “No”, mi aveva risposto, “non si preoccupi”. “Li regali a qualcuno”, avevo insistito. “Lei ci ha fatto una mitzvah”. Un atto di generosità, una gentilezza intenzionale e libera da pregiudizi. Un atto di dovere morale, ispirato da Dio.

Solo nello stanzino, ho pensato a quel momento. Ho pensato a mia moglie, stesa su un tavolo operatorio al piano di sotto, priva di sensi per l’anestesia, e ai suoi ovuli portati a maturazione che venivano estratti con un ago, ai calzini con le scimmiette fradici di neve. Al fatto di desiderare quella cosa così tanto da spendere tutti i nostri soldi, rischiare una delusione, essere disposti ad accettare il giudizio del mondo. Seduto sulla sedia di plastica cigolante, ho acceso il videoregistratore. Avrei solo voluto chiudere gli occhi e dormire, e invece ho scacciato ogni altro pensiero, tutto quanto: la neve, la monovolume, il volto del vecchio, quei tre anni trascorsi senza figli. Ho abbassato la luce fino a una penombra sommessa.

Funzionerà? Le possibilità non sono tantissime, ma io seguirò il protocollo. Un meccanismo che non capisco si è ormai messo in moto, e non sarò certo io a fermarlo. Ho scelto questa persona in particolare, l’unica della mia vita, con la quale provare ad avere un figlio. Addio a quella possibilità di ginocchia sfiorate. Addio a ogni altra cosa. Se voglio diventare padre, non ho altra scelta se non dimenticare tutto ciò che sta fuori da questo stanzino. E produrre.