mercoledì 17 ottobre 2012

I biondi non mi piacciono

 
Premessa: Non mi piacciono i biondi. Infatti, ne ho sposato uno e ne ho partorito un altro.

 
New York, 15 ottobre

“The world turns and we turn with it… but wherever I go. There you are”.

Brad Pitt testimonial maschile per la Maison Chanel nello spot pubblicitario”There tou are” girato da Joe Wright regista di "Anna Karenina", per Chanel n.5, il profumo più famoso della storica casa di moda.

 30 secondi in bianco e nero e senza colonna sonora, per i quali l'attore ha ricevuto un
cachet di 7 milioni di dollari. 30 secondi che valgono un giorno intero.  

Con questa performance, dove presta corpo e voce per uno spot destinato alle donne, Lui, Brad Pitt, l’icona della bellezza maschile per antonomasia ( insieme a Johnny Depp), dotato di un fascino commovente, ruba la scena ai volti femminili mitici che hanno rappresentato il brand prima di lui.
 Da Marylin Monroe a Catherine Deneuve alla Kidman e, più di recente a Keira Knightley.

48 anni di sensuale fisicità, bello come il sole, segnato sul viso dal tempo che passa, umano e corporeo, fa una cosa semplice. Parla.
Ma avrebbe potuto anche non farlo.

Capelli lunghi, mani in tasca, camicia fuori dai pantaloni, strafico da morire.

Un incanto.

Bene, detto questo,
 egregi amministratori della casa Chanel, vi faccio i miei più sentiti complimenti per la scelta stilistica azzeccata.
La direzione presa dal vostro team marketing mi sembra quella giusta, pare vincente la scelta fatta.
Se c'è una cosa che  proprio non reggo sono le publicità dei profumi e gli spot annessi.

Di solito odiooo gli spot pubblicitari dei profumi, dove donne bellissime,  anoressiche e svestite si spalmano su spiagge caraibiche, mezze bagnate, si vede che l’umido fa trend, e baciano o irretiscono l’idiota di turno, anch’egli bello ma vuoto come un’arancia spremuta che,  privo di personalità bacia la fanciulla o tenta di farlo.
Quasi sempre imbronciati, con la boccuccia all'ingiù, scazzati per essere maledettamente belli e arrabbiati per essere così fighi.
 
Che c'entra il profumo, vi domanderete, voi?
Niente. Assolutamente niente.

Le pubblicità dei profumi sono proprio sceme. Ma proprio tanto. Sono così stupide che mi danno sui nervi.

Se devi convincermi a comprare una cosa immateriale come un liquido odoroso (adoro i profumi e li ho anche venduti per anni) bisogna che ti sforzi un po’ e non scambi il mio quoziente intellettivo per quello della zucchina dell’orto di tua nonna, eh!

Non dico che lo spot debba avere chissà quale trama, ma un senso sì, te prego.

Siccome però, sono una persona incoerente e concedo eccezioni, carissimi signori della maison Chanel vi dico, bravi, bravi davvero.

Questo spot supera di gran lunga anche quello con cappuccetto rosso ed il lupo di qualche anno fa che, aveva un suo perché.

Nella vostra ridicola semplicità avete fatto una cosa innovativa.

Prima di tutto, avete scelto un uomo per pubblicizzare un profumo femminile.

Secondo, gli concedete la parola.

Terzo, avete scelto Lui.

Ci sarebbe un po’ da discutere sulle cose che gli fate dire. Ma la perfezione non è di questo mondo. 

Infatti, non si capisce  bene il discorso che fa. Parla di vita e di viaggi, in modo un po’ sconclusionato, ma da lui si accetta tutto, anche che sciorini giù la lista della spesa o quella dei nomi contenuti nell’elenco telefonico.
E poi se non si capisce bene sarà per colpa della traduzione. Che lui è bravo.
 Bravo e bello.
Non comprerò Chanel n. 5 perché non mi piace e neanche Brad mi convincerà (provate invece la versione maschile, è indubbiamente più piacevole) ma  ringrazio comunque  la Maison francese per i 30 secondi più emozionanti della giornata.

 La  presenza di Brad non solo mi appaga, ma mi riconcilia con il mondo fornendomi prova dell’esistenza di Dio.

 

lunedì 15 ottobre 2012

Importa che...


Eccommiiii,

non sono stata rapita dagli alieni (che anche se così fosse stato, mi avrebbero rimandato indietro non appena mi avessero conosciuto un po’, come dice mio marito), non mi ha preso in fronte una randellata, non ho perso la memoria scordandomi di avere un blog.

 E’ solo che, sebbene la fortuna sia cieca, la sfiga ci vede benissimo e sembra che abbia un debole per me. Mio figlio ha collezionato (dopo un solo mese di asilo) la quarta influenza con trentanove di febbre, ettolitri di raffreddore e svariate sintomatologie che stentavo a credere potessero esistere. Così siamo stati blindati in casa da mercoledì, l’accollo perpetuo ha vanificato quasi tutti i benefici della cura osteopata in favore di un legame più intenso, al limite della perdita di confini tra me e lui.

Il silenzio dei suoi occhi grandi addormentati su di me, la forza della sua stretta attorno al mio collo ha reso poesia giorni lenti e pigri.

La calma ritmica delle gocce sul tetto ha allungato le distanze tra il fuori, il resto del mondo ed il noi.

Cose di anime. Evanescenti ed effimere come la penombra della sua stanza.

Se alla prigionia forzata ci metti pure che alcuni fondamentali strumenti tecnologici decidono di abbandonarti nel pieno della crisi, succede che l’isolamento risulta naturale.

Così, dopo l’immersione del cellulare, lanciato nella ciotola dell’acqua del cane e sua sostituzione con modello vecchio della nokia, che manco la nokia si ricorda di aver messo sul mercato, dopo lo svenimento del forno, la dipartita del notebook, ci ha lasciato anche il PC portatile, ultimo legame tra me ed il mondo.

Ho sempre pensato male di chi dipende troppo dalla tecnologia.

E ho fatto proprio male.

Bisogna non averla per capirne l’importanza. Un po’ come quando rimani senza luce, senza acqua, senza energia e ti domandi come diavolo facessero i tuoi antenati a sopravvivere in quelle condizioni. Ci si dimentica che si sopravvive anche alla morte, a volte.

Per istinto, per necessità, per sopravvivenza appunto.

In altri momenti avrei dato fuori di matto, avrei imprecato e minacciato i miei strumenti d’immediata sostituzione, se non si fossero ripresi e si fossero dati una mossa a rimettersi subito in riga, tornando al proprio dovere.

Questa volta no, però.

Questa volta no, nonostante sia lunedì, e io non auguri lunedì neanche al mio peggior nemico. Questa volta no, sebbene sia un autunno di crisi portatore di tagli, ristrettezze e sacrifici.

Questa volta no, malgrado piova che dio la manda, sui tetti di case che tetto non hanno.

Questa volta non m’importa.

Importa invece che chi ha seminato, raccolga.

Importa che chi ha perso il posto, lo ritrovi.

Chi ha perso sogni, creda ancora.

Chi cerca parole le scorga lungo le albe di giorni nuovi o tra il  cielo di un nuovo sud.

Importa solo che il mio pc venga riparato perché io possa mantenere, conservare, rinsaldare con le persone che ho imparato ad amare, un legame di amicizia profonda.

Importa che mio figlio guarisca e che si addormenti di nuovo su di me, con il ritmo della pioggia sul tetto o che io esca con lui a bagnarmi di acqua nuova.

Io come le altre.

    

martedì 9 ottobre 2012

Singolare camion, plurale cami


L’uso dell’ironia, del congiuntivo e del plurale non è da tutti.

Esorcizzare il dramma con il talento è magistrale...a volte davanti al genio bisogna solo inchinarsi e

togliersi il cappello.

 

“ La disoccupazione è un problema serio

Che va risolto e i politici

ce la stnno mettendo tutta.

Hanno pensato di risolverlo con

gli investimenti.

Solo che poi hanno

visto che con un camion dei

carabinieri riescono ad investirne

uno, due. Ma quelli sono tanti.

Se vogliono risolvere davvero il

problema, con una politica seria

e impegnata, l'unica cosa è fare i camion più grossi".


 
Massimo Troisi

giovedì 4 ottobre 2012

Com'è?


Com’è cercare un figlio, provarci e trovarlo subito?

“Ci siamo accorti che volevamo un bambino, ci abbiamo provato ed io sono rimasta incinta, subito. Così, la prima volta è stata quella buona”.

Quante volte abbiamo sentito questa storia, da un’amica, dalla cugina dell’amica, dalla vicina della cugina, dell’amica della nostra amica.
Quante volte il nostro stomaco è stato trafitto da parte a parte da queste disarmanti parole?

Io non le conto neanche più.

Una persona dal cuore grande, dalla profondità della sua anima dice che i bambini che nascono dalle pance di altre mamme non sono i suoi che hanno sbagliato strada e che nessuna ruba la fortuna di un'altra.
Ma persone come Lei sono l’eccezione in questo pazzo mondo e gli animi nobili a volte non sono compresi, spaventano e mettono a disagio se confrontati con sentimenti molto più umani e molto più diffusi.

Quello che vorrei sapere, quello che non conosco perché non ho mai provato è, comprendere, sentire, immaginare, provare, la sensazione che si vive quando si resta incinte la prima volta che si cerca un bambino.

Conosco il desiderio della maternità, conoscevo mio figlio prima di incontrarlo, lo riconosco quando lo tocco e lo annuso. Ma mi chiedo: com’è volere un figlio e averlo naturalmente, nell’esatto momento in cui si desidera?

Com’è provare e riuscire, senza battaglie, senza guerre, senza traumi?

Che sensazione si prova quando tutto avviene come se fosse l’evento più naturale del mondo? Com’è quando le cose vanno come devono andare, com’è desiderare e ottenere?

Che rumore fa quel click che tante dicono di sentire nell’esatto momento in cui concepiscono, qual è l’odore della sicurezza di conoscere il proprio corpo, fidarsi di lui, contenere, avvolgere un sogno e riuscire a realizzarlo?

Come sono per una coppia che prova e riesce ad avere un figlio subito, i rapporti, quali sono le emozioni che unificano o dividono?

Com’è avere un potere generazionale?Com’è poter procreare con facilità?

Com’è questa felicità?

mercoledì 3 ottobre 2012

La schena storta- parte seconda


Io e la mia schiena le abbiamo provate tutte per darci un reciproco sollievo, lei per sopportare il peso del mio corpo, io per sopportare il peso della sua devianza.

Io fatico di più, ma siccome lei è molto suscettibile le lascio credere che è lei a fare il lavoro pesante.

Meno ciccia e molto più movimento aiuterebbero,assai.

Il mio amico osteopata dice che nei casi di disfunzione organica andrebbe eliminata la causa.
Nel mio caso, visto che la causa dell’aggravarsi di certe posture è tenere in braccio mio figlio, giocare per terra con mio figlio, correre, mangiare, dormire, allattare, portare mio figlio, temo che la causa non possa, fisicamente, essere rimossa.
Per tanto, cerchiamo di convivere con una soglia del dolore accettabile e migliorare per quanto possibile la funzionalità della mia colonna che, tirchia com’è, cerca di fare tutto in economia, rattrapendosi.

L’osteopata, chi è costui?

L’osteopata è un professionista, che praticauna medicina complementare che tratta disfunzioni fisiologiche attraverso un particolare tipo di manipolazione (manipolazione osteopatica). Lo scopo dell'osteopatia è quello di riportare una situazione non fisiologica entro dei limiti di normalità fisiologici. In generale l'osteopatia presuppone che il Sistema Nervoso Vegetativo svolga costantemente una autonoma azione di controllo dell'omeostasi corporea a tutti i livelli e che tale attività sia manifesta somaticamente. La manipolazione osteopatica (OMT) è dunque rivolta all'evocazione di migliori condizioni di efficacia del SNV del soggetto”.

“Questi i principi largamente accettati all'interno della comunità osteopatica:

  1. Il corpo è una unità.
  2. La struttura e la funzione sono reciprocamente inter-correlate.
  3. Il corpo possiede dei meccanismi di autoregolazione e autoguarigione (omeostasi).
  4. Quando la normale adattabilità è interrotta, o quando dei cambiamenti ambientali superano la capacità del corpo di ripararsi da sé, può risultarne la malattia.
  5. Il movimento dei fluidi corporei è essenziale al mantenimento della salute.
  6. Il sistema nervoso autonomo gioca una parte cruciale nel controllare i fluidi del corpo.
  7. Ci sono componenti somatiche della malattia che sono non solo manifestazioni della malattia, ma anche fattori che contribuiscono al mantenimento dello stato di malattia.

Questi principi non sono ritenuti dai medici osteopati leggi scientifiche, né contraddicono i principi medici; sono insegnati come fondamenti della filosofia osteopatica riguardo alla salute e alla malattia”.

Devo dire che all’inizio la mia schiena era molto scettica nei confronti e di nuovi trattamenti e di nuove mani che, pensava, l’avrebbero manipolata nuovamente, invadendola.

Sbagliava.

Certo, non potevo darle torto, anni ed anni di fisioterapia varia, ginnastica, metodo mezier ( una vera tortura) posturali varie, l’hanno resa diffidente nei confronti di molti, medici e tecniche.

Questa volta però è stato diverso.
L’ho convinta a provare. Mi ha costretta a mettere le mani avanti, però, spiegando all’osteopata che non avremmo fatto nuove  lastre, ne ci saremmo spogliate di nuovo.

Detto tra noi, è caparbia come un mulo.

Fatto sta che lei ed il mio amico, osteopata, si sono piaciuti.
Lui non ha chiesto di vederla e lei ha apprezzato.
Lui le ha fatto i complimenti, dicendole che tutto sommato, aveva un buon equilibrio.
Lei ha arrossito. Così è cominciata la loro nuova amicizia.
Lei sta leggermente meglio, ma il lento lavoro la porta a trovare nuove economie e nuove posizioni, quindi ogni tanto sbanda e sente dolori nuovi.

Ma i due sembra che per ora si siano riconosciuti. Lei creativamente storta, lui originalmente medico e psicologo.

Si piacciono, per ora.

 
L'originalità dell'osteopatia si articola in tre punti:

  • la mano come mezzo d'analisi e di cura
  • la considerazione dell'individuo nella sua globalità
  • il principio di autoregolazione (omeostasi) ossia la capacità propria dell'organismo di rigenerarsi.

L'osteopatia si basa su tre leggi fondamentali della natura umana:

  • equilibrio: per funzionare, il corpo è alla continua ricerca d'equilibrio. Legge dell'omeostasi generale
  • economia: legge di risparmio sul consumo energetico
  • non dolore: fase iniziale di compensazione.

L'osteopatia si fonda su di un concetto ma anche sull'educazione palpatoria dei suoi operatori, che percepiscono tensioni e squilibri grazie all'intelligenza di una palpazione specifica: la mano analizza e cura.

L'osteopatia fa riferimento all'anatomia e alla fisiologia nel senso più lato. Necessità di competenze nella conoscenza approfondita del funzionamento del corpo umano, delle correlazioni tra diversi sistemi.

Il gesto terapeutico osteopatico rimane sempre nel campo fisiologico.

Quindi il protocollo terapeutico risponde a:

  • delle opzioni strategiche: scelta delle tecniche osteopatiche in funzione della lesione, della gerarchia delle disfunzioni, del potenziale vitale del paziente
  • delle opzioni tattiche: ruolo del trattamento osteopatico nell'arsenale terapeutico completo (terapia alternativa o complementare)

Oltre ad un trattamento d'urgenza, l'osteopatia applica una particolare attenzione alla prevenzione.

Non potendo dissociare il corpo e la psiche che lo anima, avverrà frequentemente di stabilire relazioni tra il sintomo di natura fisica ed un trauma o degli stress successivi sul piano psicologico e affettivo. L'osteopatia cerca oltre il sintomo le cause del disturbo.

Il corpo è un meccanismo sofisticato.

Se le diverse strutture presentano interrelazioni corrette avremo un soddisfacente stato di salute.

Se la mobilità delle strutture è disturbata, lo sarà anche la loro funzione.

Le tre leggi, Equilibrio, Economia e Non dolore organizzano allora delle compensazioni che l'organismo stabilisce per ovviare al cattivo funzionamento delle sue componenti.

Essendo ogni parte del corpo completamente interdipendente dall'insieme delle strutture, l'osteopata tratterà l'insieme, permettendo al corpo di rimuovere le sue compensazioni e di restituire alle diverse strutture la mobilità iniziale.

“Prendiamo l'esempio del pianoforte: l'armonia delle note dipende da ognuna di esse.

In presenza di una nota falsa, l'armonia si rompe e bisogna riaccordare il pianoforte”.

Che l'osteopata sia una sorta di diapason?

 

 

martedì 2 ottobre 2012

La schiena dritta - tratto da "Et Voilà"


Il profumo acre del cloro mi irrita le mucose e mi intossica i ricordi.

È strano come, a distanza di tanto tempo, certi odori rievochino episodi sparpagliati negli angoli più impensati della nostra mente.

Il cloro e l’incenso bruciato, utilizzato nelle cerimonie di addio dei nostri cari, emanano profumi che proprio non sopporto.

Scesi le scale che portavano alla piscina al coperto a sei anni e il soffio improvviso di quell’odore acre mi soffocò il respiro.

Il nuoto, dissero a mia madre, avrebbe corretto una brutta scoliosi.

Eh sì, la mia colonna vertebrale aveva deciso di curvare lateralmente manifestandosi in tenera età, forse per un fatto congenito, forse per malformazione delle vertebre o chissà per quale altra ragione, fatto rimaneva ero scoliotica.

Entrai nell’acqua, scevra di qualunque certezza, non per timore di quella liquida dimensione da cui ero attratta e affascinata ma per il dubbio inconscio di essere erronea, sbagliata.

Dubbio che ha corroso a lungo la mia corteccia, scavandomi profonde gallerie.

La bambina è storta, occorre raddrizzarla.

Era necessario correggermi perché stavo venendo su in modo obliquo, allontanandomi dalla mia primitiva posizione diritta.

In altre parole ero difettata, bisognava eliminare l’errore in modo da riportarmi a un assetto retto.

Cominciai così dei lunghi monologhi muti con la linea blu dipinta sul pavimento della piscina, percorrendola nel senso della sua lunghezza, esercitandomi nel non allontanarmi dal suo andamento, che non volgeva né si piegava mai. Mi domando oggi, se la mia propensione a comunicare con le cose inanimate non sia nata proprio durante quelle innumerevoli vasche, per gioco e per noia.

Mezz’ora di ginnastica correttiva per allungare la colonna, a seguire un’ora di nuoto per quattro giorni alla settimana, il tutto condito dall’attrito degli abiti sulla pelle umida che non avevano alcuna voglia di scivolare su una superficie odorante di cloro.

Attenti!, pericolo di funghi e verruche!, non correte!, riponete le scarpette lungo i bordi!, il tuo stile libero è piuttosto impacciato, muovi quelle gambe!, suvvia ragazzi, ma che dormite?

No, noi ragazzi non dormivamo affatto, non avremmo potuto farlo neanche se lo avessimo voluto; il getto dell’acqua delle docce, impostoci prima dell’immersione, ci risvegliava dal torpore umido e dalla stanchezza fisica, sferzandoci violentemente, mentre i più piccoli dovevano superare un’altra grande prova: trattenere la pipì.

Se non l’avessimo trattenuta, l’acqua avrebbe cambiato il suo non colore, virando al blu, sotto gli sguardi indagatori degli altri nuotatori, e noi dalla vergogna ci saremmo dissolti nel liquido fino al nostro completo assorbimento attraverso le bocchette aspiranti della piscina.

Nuotai dai sei ai dodici anni e la mia schiena seguì le mie bracciate, accompagnando verticalmente la mia crescita in altezza fino a quando per dispetto o per caso decise nuovamente di deviare.

Sembrava non volesse saperne proprio di sorreggere il mio corpo che si apprestava a sviluppare.

Molto più tardi avrei capito che forse le mie spalle avevano bisogno di più tempo per rendersi forti al punto giusto da supportare i pesi e gli oneri che poi avrebbero sostenuto.

Il busto, dissero a mia madre, avrebbe corretto la brutta scoliosi.

Sotto le mani non sensibili di medici ottusi che tastavano il mio corpo acerbo, ricomparve quella strana sensazione di manchevolezza. Ero imperfetta.

Già allora.

Come una merce difettosa il cui bollino rosso ne attesta il neo, la mia schiena storta, come una strada di campagna, ricordava a tutti il mio vizio.

L’amore infinito dei miei genitori non bastava a sostenere la mia struttura ossea che caparbiamente, allora come oggi, si ostinava a ripiegarsi, ma mai e poi mai si sarebbe lasciata spezzare.

Signora, il busto è insufficiente, il gesso è quello che ci vuole.

Sì, il gesso, dissero a mia madre, avrebbe corretto la mia brutta scoliosi.

Così mi incartarono dentro fasciature rigide intrise di acqua e gesso per mantenere immobile la mia colonna, repressa da strani compressori che facevano pressione lungo le curve della mia strada di campagna.

Tu, mamma, mi guardavi, infagottata in quel gesso, e quella costrizione era una contrazione costante al tuo cuore, e tu papà, ovunque oggi tu sia, mi portavi scatolette di salmone, scherzando sul fatto che il successivo gesso lo avremmo fatto in un albergo migliore anziché in uno squallido ospedale.

Il gesso in sé mi divertiva, se di divertimento si può parlare; mi piacevano le scritte e i disegni che amici e parenti sperimentavano sull’armatura del mio busto.

In breve tempo mi adattai alla nuova corazza che divenne una sorta di guscio protettivo, e in nome del legame instauratosi con la mia nuova protezione, questa, pensò bene di lasciarmi sulla pelle lividi tali, in corrispondenza dei compressori, da rendermi bluastra su gran parte della mia schiena, per un bel po’.

Mi adattai anche alle mani fredde dei medici, le quali percorrevano ripetutamente la mia strada tortuosa commentando l’andamento della cura, che non sempre rispondeva alle loro aspettative.

Quello a cui, invece, non mi abituai mai, furono le continue trazioni a cui, noi affette da scoliosi, eravamo sottoposte.

Venivamo ricoverate di lunedì e per l’intera settimana, fino al venerdì, giornata di gessi, ogni ora, per un periodo di quindici minuti, venivamo imbrigliate dentro strane attrezzature che tiravano il bacino in un verso e il collo nell’altro, attraverso pesi bilanciati, in modo tale che la colonna disobbediente fosse distesa alle sue estremità.

Il trattamento, piuttosto barbaro, mi ha lasciato come eredità una forte avversione nei confronti di tutto quello che mi stringe il collo, compresi colli alti e foulard.

Ogni gesso veniva portato per tre mesi; io ne feci tre.

Poiché d’estate il gesso non era consigliato, visto lo spessore dei suoi dieci chili, venne il periodo di Daniele. Daniele fu il nome che detti al mio Milwaukee.

Strana la vita. Oggi Daniele è il nome dato a mio figlio.

Il Milwaukee, per chi non dovesse intendersi di busti ortopedici, è un particolare busto, per l’appunto, fatto di una sbarra di ferro che arriva sotto il collo, imponendoti una finta andatura altezzosa, su cui si sviluppa un bacino in plastica che abbraccia quello in carne, stringendoti con apposite chiusure metalliche.

Io e Daniele dormimmo molte notti insieme, mentre di giorno, mosso a pietà, mi lasciò qualche ora libera. Daniele fu gettato in un cassonetto della spazzatura insieme alla sua custodia, quando dissero a mia madre che l’intervento era ciò che definitivamente avrebbe corretto la mia brutta scoliosi.

Né i gessi né il busto ortopedico erano riusciti a raddrizzarmi, le mie ossa non sostenevano il mio corpo.

Credo che la prospettiva dell’operazione, insieme alla preoccupazione per un anno di degenza in un ospedale francese, abbiano contribuito a lacerare quella parte del cuore di mio padre che di lì a poco si sarebbe necrotizzata per un arresto del flusso sanguigno.

Voi, mi deste la possibilità di scelta, temendo che un giorno io potessi incolparvi di avermi costretto a un intervento lungo e doloroso; più tardi ho capito quanta sofferenza metteste nella vostra scelta. Non potevate impedire che vostra figlia, la vostra bambina fosse toccata, voi che avreste voluto darmi la luna insieme all’avverarsi di tutti i desideri del suo pozzo.

Vi ho amato infinitamente per questo e per l’innumerevole altro.

Partimmo in macchina, per Lione, mia madre, mio padre e io, verso colui che mi avrebbe raddrizzato.

Che strano, oggi non ricordo neanche il nome del professore che avrebbe dovuto operarmi; ma ricordo perfettamente il centro ortopedico, come ricordo il viaggio che intraprendemmo, le tappe e le cene per rendere l’atmosfera meno pesante.

A un certo punto del viaggio, stanca, chiesi quanto mancasse per la successiva fermata, mio padre rispose: “Ventimiglia”. Che buffo, pensai, di solito misurava le distanze in chilometri non in miglia; non capii che Ventimiglia era una città.

Ventimiglia al confine con la Francia, Ventimiglia, termine, fine, limite della mia strada di campagna.

Il professore fu molto dolce, mi spiegò, tramite interprete, tutte le fasi dell’operazione e le successive per la riabilitazione. I primi tre mesi li avrei dovuti passare nella completa immobilità, per permettere alla colonna vertebrale, agganciata a un’asta rigida, di abituarsi all’intrusa; in quelli seguenti avrei potuto compiere qualche movimento, fino a quando l’asta introdotta non avesse familiarizzato con il resto dell’organismo.

Cosa ne avremmo fatto poi dell’asta, una volta che avessi finito di crescere, questo nessuno lo sapeva. Potevo decidere di tenerla dentro, salvo complicazioni, rotture o cose del genere, oppure decidere di toglierla, come un vestito usato, come una maglietta stropicciata, come se sottoporsi di nuovo a un intervento invasivo fosse cosa di poco conto.

Concordammo il ricovero per l’inizio del nuovo anno scolastico; avrei finito gli esami di terza media, mi sarei inscritta al Liceo e sarei partita per correggere la mia brutta scoliosi.

Il mio dolce amico, oggi insieme a mio padre chissà dove, si offrì come volontario nel prendere gli appunti delle lezioni a cui sarei mancata; avremmo superato insieme il nostro primo anno di Liceo.

“Ma quando ti sembra che la vita stia prendendo una forma definitiva, accade qualcosa di inaspettato che rimette in gioco la tua identità”.

Mio padre morì a maggio, a giugno detti gli esami di licenza media, a settembre non partii.

La mia schiena storta avrebbe aspettato. La vita era cambiata e con lei le priorità da affrontare.

Mi dimenticai di lei e della sensazione di svantaggio nei confronti degli altri, coinvolta in tutt’altre faccende, fino a quando quel latente senso di inadeguatezza non ricomparve, mosso, forse, da un amore adolescenziale.

Da allora è trascorso del tempo che pare infinito, tanta è l’acqua passata sotto ponti diversi, scivolata via lungo le età della mia vita, a volte ondeggiando altre inondando.

L’odore acre del cloro mi irrita le mucose e mi intossica ricordi, eppure la mia schiena storta riesce ancora a piegarsi e a raccogliere le cose infrante, sorreggendomi in un inchino logoro.
 
 
Domani voglio parlarvi di osteopatia. Perché quando la normale adattabilità è interrotta, o quando dei cambiamenti ambientali superano la capacità del corpo di ripararsi da sé, può risultarne una malattia e dell’animo e del corpo.


 

 

lunedì 1 ottobre 2012

Nessuno tolga le castagne dal fuoco


Piove, è il primo di Ottobre e non so perché ma mi vien voglia di castagne. Castagne e Brandy davanti al caminetto che scoppietta mentre fuori piove. Per l’appunto.

In realtà le castagne non mi piacciono affatto, ma la loro idea mi fa impazzire.

L’idea delle castagne, dei piedi sopra alla sedia, dello svenimento sul divano e del caminetto accesso.

L’idea del loro calore che quando le sbucci ti scottano i polpastrelli ma fa niente perché la polpa chiama. L’idea del riccio spinoso che le contiene come un nido, un abbraccio.

L’idea delle foglie gialle e rosse che quando ci cammini su scricchiolano sotto i piedi come un tappeto di carta riciclata.

La fiamma che ipnotizza, danza balla nella luce di un continuo movimento.

E’ bellezza, è calore, è casa.

Le castagne sono l’autunno.

 

Deve esserci stata una svista però negli alimenti consentiti dal mio dietologo. Non le ha inserite.

Chissà perché……