martedì 2 ottobre 2012

La schiena dritta - tratto da "Et Voilà"


Il profumo acre del cloro mi irrita le mucose e mi intossica i ricordi.

È strano come, a distanza di tanto tempo, certi odori rievochino episodi sparpagliati negli angoli più impensati della nostra mente.

Il cloro e l’incenso bruciato, utilizzato nelle cerimonie di addio dei nostri cari, emanano profumi che proprio non sopporto.

Scesi le scale che portavano alla piscina al coperto a sei anni e il soffio improvviso di quell’odore acre mi soffocò il respiro.

Il nuoto, dissero a mia madre, avrebbe corretto una brutta scoliosi.

Eh sì, la mia colonna vertebrale aveva deciso di curvare lateralmente manifestandosi in tenera età, forse per un fatto congenito, forse per malformazione delle vertebre o chissà per quale altra ragione, fatto rimaneva ero scoliotica.

Entrai nell’acqua, scevra di qualunque certezza, non per timore di quella liquida dimensione da cui ero attratta e affascinata ma per il dubbio inconscio di essere erronea, sbagliata.

Dubbio che ha corroso a lungo la mia corteccia, scavandomi profonde gallerie.

La bambina è storta, occorre raddrizzarla.

Era necessario correggermi perché stavo venendo su in modo obliquo, allontanandomi dalla mia primitiva posizione diritta.

In altre parole ero difettata, bisognava eliminare l’errore in modo da riportarmi a un assetto retto.

Cominciai così dei lunghi monologhi muti con la linea blu dipinta sul pavimento della piscina, percorrendola nel senso della sua lunghezza, esercitandomi nel non allontanarmi dal suo andamento, che non volgeva né si piegava mai. Mi domando oggi, se la mia propensione a comunicare con le cose inanimate non sia nata proprio durante quelle innumerevoli vasche, per gioco e per noia.

Mezz’ora di ginnastica correttiva per allungare la colonna, a seguire un’ora di nuoto per quattro giorni alla settimana, il tutto condito dall’attrito degli abiti sulla pelle umida che non avevano alcuna voglia di scivolare su una superficie odorante di cloro.

Attenti!, pericolo di funghi e verruche!, non correte!, riponete le scarpette lungo i bordi!, il tuo stile libero è piuttosto impacciato, muovi quelle gambe!, suvvia ragazzi, ma che dormite?

No, noi ragazzi non dormivamo affatto, non avremmo potuto farlo neanche se lo avessimo voluto; il getto dell’acqua delle docce, impostoci prima dell’immersione, ci risvegliava dal torpore umido e dalla stanchezza fisica, sferzandoci violentemente, mentre i più piccoli dovevano superare un’altra grande prova: trattenere la pipì.

Se non l’avessimo trattenuta, l’acqua avrebbe cambiato il suo non colore, virando al blu, sotto gli sguardi indagatori degli altri nuotatori, e noi dalla vergogna ci saremmo dissolti nel liquido fino al nostro completo assorbimento attraverso le bocchette aspiranti della piscina.

Nuotai dai sei ai dodici anni e la mia schiena seguì le mie bracciate, accompagnando verticalmente la mia crescita in altezza fino a quando per dispetto o per caso decise nuovamente di deviare.

Sembrava non volesse saperne proprio di sorreggere il mio corpo che si apprestava a sviluppare.

Molto più tardi avrei capito che forse le mie spalle avevano bisogno di più tempo per rendersi forti al punto giusto da supportare i pesi e gli oneri che poi avrebbero sostenuto.

Il busto, dissero a mia madre, avrebbe corretto la brutta scoliosi.

Sotto le mani non sensibili di medici ottusi che tastavano il mio corpo acerbo, ricomparve quella strana sensazione di manchevolezza. Ero imperfetta.

Già allora.

Come una merce difettosa il cui bollino rosso ne attesta il neo, la mia schiena storta, come una strada di campagna, ricordava a tutti il mio vizio.

L’amore infinito dei miei genitori non bastava a sostenere la mia struttura ossea che caparbiamente, allora come oggi, si ostinava a ripiegarsi, ma mai e poi mai si sarebbe lasciata spezzare.

Signora, il busto è insufficiente, il gesso è quello che ci vuole.

Sì, il gesso, dissero a mia madre, avrebbe corretto la mia brutta scoliosi.

Così mi incartarono dentro fasciature rigide intrise di acqua e gesso per mantenere immobile la mia colonna, repressa da strani compressori che facevano pressione lungo le curve della mia strada di campagna.

Tu, mamma, mi guardavi, infagottata in quel gesso, e quella costrizione era una contrazione costante al tuo cuore, e tu papà, ovunque oggi tu sia, mi portavi scatolette di salmone, scherzando sul fatto che il successivo gesso lo avremmo fatto in un albergo migliore anziché in uno squallido ospedale.

Il gesso in sé mi divertiva, se di divertimento si può parlare; mi piacevano le scritte e i disegni che amici e parenti sperimentavano sull’armatura del mio busto.

In breve tempo mi adattai alla nuova corazza che divenne una sorta di guscio protettivo, e in nome del legame instauratosi con la mia nuova protezione, questa, pensò bene di lasciarmi sulla pelle lividi tali, in corrispondenza dei compressori, da rendermi bluastra su gran parte della mia schiena, per un bel po’.

Mi adattai anche alle mani fredde dei medici, le quali percorrevano ripetutamente la mia strada tortuosa commentando l’andamento della cura, che non sempre rispondeva alle loro aspettative.

Quello a cui, invece, non mi abituai mai, furono le continue trazioni a cui, noi affette da scoliosi, eravamo sottoposte.

Venivamo ricoverate di lunedì e per l’intera settimana, fino al venerdì, giornata di gessi, ogni ora, per un periodo di quindici minuti, venivamo imbrigliate dentro strane attrezzature che tiravano il bacino in un verso e il collo nell’altro, attraverso pesi bilanciati, in modo tale che la colonna disobbediente fosse distesa alle sue estremità.

Il trattamento, piuttosto barbaro, mi ha lasciato come eredità una forte avversione nei confronti di tutto quello che mi stringe il collo, compresi colli alti e foulard.

Ogni gesso veniva portato per tre mesi; io ne feci tre.

Poiché d’estate il gesso non era consigliato, visto lo spessore dei suoi dieci chili, venne il periodo di Daniele. Daniele fu il nome che detti al mio Milwaukee.

Strana la vita. Oggi Daniele è il nome dato a mio figlio.

Il Milwaukee, per chi non dovesse intendersi di busti ortopedici, è un particolare busto, per l’appunto, fatto di una sbarra di ferro che arriva sotto il collo, imponendoti una finta andatura altezzosa, su cui si sviluppa un bacino in plastica che abbraccia quello in carne, stringendoti con apposite chiusure metalliche.

Io e Daniele dormimmo molte notti insieme, mentre di giorno, mosso a pietà, mi lasciò qualche ora libera. Daniele fu gettato in un cassonetto della spazzatura insieme alla sua custodia, quando dissero a mia madre che l’intervento era ciò che definitivamente avrebbe corretto la mia brutta scoliosi.

Né i gessi né il busto ortopedico erano riusciti a raddrizzarmi, le mie ossa non sostenevano il mio corpo.

Credo che la prospettiva dell’operazione, insieme alla preoccupazione per un anno di degenza in un ospedale francese, abbiano contribuito a lacerare quella parte del cuore di mio padre che di lì a poco si sarebbe necrotizzata per un arresto del flusso sanguigno.

Voi, mi deste la possibilità di scelta, temendo che un giorno io potessi incolparvi di avermi costretto a un intervento lungo e doloroso; più tardi ho capito quanta sofferenza metteste nella vostra scelta. Non potevate impedire che vostra figlia, la vostra bambina fosse toccata, voi che avreste voluto darmi la luna insieme all’avverarsi di tutti i desideri del suo pozzo.

Vi ho amato infinitamente per questo e per l’innumerevole altro.

Partimmo in macchina, per Lione, mia madre, mio padre e io, verso colui che mi avrebbe raddrizzato.

Che strano, oggi non ricordo neanche il nome del professore che avrebbe dovuto operarmi; ma ricordo perfettamente il centro ortopedico, come ricordo il viaggio che intraprendemmo, le tappe e le cene per rendere l’atmosfera meno pesante.

A un certo punto del viaggio, stanca, chiesi quanto mancasse per la successiva fermata, mio padre rispose: “Ventimiglia”. Che buffo, pensai, di solito misurava le distanze in chilometri non in miglia; non capii che Ventimiglia era una città.

Ventimiglia al confine con la Francia, Ventimiglia, termine, fine, limite della mia strada di campagna.

Il professore fu molto dolce, mi spiegò, tramite interprete, tutte le fasi dell’operazione e le successive per la riabilitazione. I primi tre mesi li avrei dovuti passare nella completa immobilità, per permettere alla colonna vertebrale, agganciata a un’asta rigida, di abituarsi all’intrusa; in quelli seguenti avrei potuto compiere qualche movimento, fino a quando l’asta introdotta non avesse familiarizzato con il resto dell’organismo.

Cosa ne avremmo fatto poi dell’asta, una volta che avessi finito di crescere, questo nessuno lo sapeva. Potevo decidere di tenerla dentro, salvo complicazioni, rotture o cose del genere, oppure decidere di toglierla, come un vestito usato, come una maglietta stropicciata, come se sottoporsi di nuovo a un intervento invasivo fosse cosa di poco conto.

Concordammo il ricovero per l’inizio del nuovo anno scolastico; avrei finito gli esami di terza media, mi sarei inscritta al Liceo e sarei partita per correggere la mia brutta scoliosi.

Il mio dolce amico, oggi insieme a mio padre chissà dove, si offrì come volontario nel prendere gli appunti delle lezioni a cui sarei mancata; avremmo superato insieme il nostro primo anno di Liceo.

“Ma quando ti sembra che la vita stia prendendo una forma definitiva, accade qualcosa di inaspettato che rimette in gioco la tua identità”.

Mio padre morì a maggio, a giugno detti gli esami di licenza media, a settembre non partii.

La mia schiena storta avrebbe aspettato. La vita era cambiata e con lei le priorità da affrontare.

Mi dimenticai di lei e della sensazione di svantaggio nei confronti degli altri, coinvolta in tutt’altre faccende, fino a quando quel latente senso di inadeguatezza non ricomparve, mosso, forse, da un amore adolescenziale.

Da allora è trascorso del tempo che pare infinito, tanta è l’acqua passata sotto ponti diversi, scivolata via lungo le età della mia vita, a volte ondeggiando altre inondando.

L’odore acre del cloro mi irrita le mucose e mi intossica ricordi, eppure la mia schiena storta riesce ancora a piegarsi e a raccogliere le cose infrante, sorreggendomi in un inchino logoro.
 
 
Domani voglio parlarvi di osteopatia. Perché quando la normale adattabilità è interrotta, o quando dei cambiamenti ambientali superano la capacità del corpo di ripararsi da sé, può risultarne una malattia e dell’animo e del corpo.


 

 

11 commenti:

  1. I tuoi post sono così densi e preziosi che si ha quasi paura di sporcarli, nel commentare.
    Grazie.

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    1. Ma che dici Robin? Adoro essere "sporcata" dalle tue parole.

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    2. Mi spiego: davanti a tanta sofferenza è difficile, per me, non scadere nel banale.

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  2. Da bambina avevo un'amica - giuro che si chiamava Raffaella - che aveva una brutta scoliosi.
    lei veniva solo d'estate ed aveva genitori molto snob, il che non la aiutava a socializzare.
    Stava sempre da sola perchè gli altri facevano giochi scatenati e lei non poteva, le mancava il fiato così stretta stretta nel busto, nel gesso, nelle varie attrezzature che tentavano di raddrizzarle la schiena.
    io per un pò le facevo compagnia, poi il richiamo della vita mi faceva fremere e scappare via.
    mi dispiace, mi dispiace tanto. ero stupida ed egoista.
    vorrei tanto sapere adesso dov'è e come sta.
    ma non ricordo neppure il cognome anzi, temo di non averlo mai saputo.
    spero che sia felice.
    il tuo racconto mi ha fatto raffiorare il ricordo.
    un abbraccio.

    Adelia

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  3. Escluso il gesso, che mi è stato risparmiato, il resto lo conosco tutto. Ginnastica, milwakee, busto. L'operazione ai miei tempi - la stessa che peraltro proposero a te - era sperimentale. Non la feci. Io aggiunsi un giro a Parigi, a 34 anni, a parlare con il luminare della scoliosi sull'adulto. Il quale, dopo avermi fatto un sacco di esami (ricordo ancora il decolté dell'infermiera che mi faceva i prelievi...) mi consigliò di lasciar perdere. E così feci.

    Psicologicamente ha formato il mio carattere. Su tante cose la scoliosi mi ha insegnato a guardare oltre le apparenze, a riconoscere e sviluppare in me altre forze che mi consentissero di equilibrare ciò che manca dal punto di vista fisico. Ho perso, e ho guadagnato. Bene così....

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  4. Concordo con Robin....
    Grazie per aver condiviso con noi i tuoi pensieri...
    Un abbraccio!

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  5. ho una scoliosi trascurata e peggiorata x colpa di pesanti cartelle, la cartella a volte pesava un terzo del mio peso complessivo! Ho la cifosi, un l'artrosi cervicale che si solito si ha verso 65 anni, che dire? Mi porto avanti.
    Ogni tanto mia mamma ventilava l'idea del busto risolutivo, io pregavo lasciasse perdere. Ha sempre lasciato perdere, come l'apparecchio ai denti. Non la biasimo, 2 gemelle, tanti casini e pochi soldi. Tanto affetto quello non mancava, quello non raddrizza la schiena, ma lo riconosci. Cammino gobba, me ne rendo conto soprattutto se mi guardo di straforo in una vetrina, o nelle foto di profilo. Altra cosa in comune cara, stare chine a scriver romanzi non aiuta, neh.

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  6. Il tuo bellissimo racconto smuove tanti pensieri ... da quell'idea di essere imperfetti si guarisce? O meglio, se ne assimila forza? In te vedo creata una personalità lucida e decisa, che guarda al suo passato con tanta tenerezza e come una scala verso l'alto. Io ho vissuto un'infanzia perfetta, almeno nei ricordi, ero felice e soddisfatta allora. Per questo temo di non comprendere abbastanza oggi come madre. Spero di riuscire a far sentire tutto l'amore che hai sentito tu.

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  7. Cocordo con Robin, non servono altre parole. Se non dirti che in questi racconti si intravede perché sei così speciale.

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  8. Caspita che storia... Mi ricorda una cara zia, persona stupenda, che rifiutò come te l'operazione, dato che ai tempi era ancora sperimentale e lei, ragazzina, temeva il dolore e la lunga convalescenza. Purtroppo però la sua era una grave forma di scoliosi deformante e adesso non c'è più.
    Eppure, con il suo carattere splendido e la forza con cui ha agguantato gli obiettivi della vita che, a detta dei medici, le erano preclusi (matrimonio e figli in primis) ha dato un'importante lezione di vita a tutti noi in famiglia

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  9. Un lungo calvario, mi dispiace tanto, Raffaella.
    Sentirsi storti è un sentimento in cui spesso sono immersa anch'io, quindi ti capisco benissimo, anche se la tua storia è molto diversa. Un abbraccio.

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