lunedì 7 aprile 2014

Educare=reprimere?


 Succede che, nella mia città, la polizia entri con cani antidroga dentro ad un liceo, con il permesso del preside che, acconsente all’operazione e che, un professore si rifiuti di far entrare la squadra nella sua classe.

L’unico.

Ovviamente, essendo il genere umano una categoria assai bizzarra divampa sul social network una campagna denigratoria, non contro l’azione repressiva (come ci si sarebbe dovuto aspettare secondo il buon senso) bensì, contro il professore che, all’occhio di molti è sembrato uno che vuole uscire fuori dal coro e farsi pubblicità a discapito di un controllo, ritenuto da molti, virtuoso.

Capiamoci subito su una cosa. Niente da eccepire se l’azione fosse stata fatta fuori dalle porte della scuola.

Magari ci fossero più controlli, alle uscite.

Il punto è che, invece, l’esercizio dell’autorità sia stato svolto in un luogo che, per antonomasia, dovrebbe rappresentare uno spazio inviolabile, il posto dell’educazione e non della soppressione, del dialogo piuttosto che del mettere a tacere con la forza, del confronto, del nascere delle idee, dell’istruire, del formare, dell’insegnare. Certamente anche del dare regole. Ma nessuna buona regola si offre senza il buon esempio.

C’è stato un tempo in cui tutto il sapere passava per questa istituzione. Oggi, per ovvie ragioni e grazie a Dio, aggiungerei, non è più così. Il sapere arriva da ogni dove. Si apprende in modi diversi. Dal web, dagli altri, dalla tv, dai giornali, dai libri, dai viaggi. Ma non viene tolto, sempre grazie a Dio, alla scuola il dovere di strutturare le varie forme di sapere, di organizzarle, di renderle accessibili e confrontabili.

La scuola è il luogo deputato alla crescita, risponde a domande, bisogni. Dalla scuola dipendono la formazione culturale e professionale delle nuove generazioni, la loro creatività come la loro capacità di fare innovazione e di partecipare attivamente a un mondo in trasformazione. Insieme con tutto questo la scuola contribuisce ai processi di mobilità sociale, a far crescere e valorizzare i talenti, a rendere possibile l’integrazione sociale in realtà profondamente segnate dalla presenza di comunità di origine straniera che spesso restano emarginate. Ma la misura dei suoi risultati dipende anche dall’attenzione che la comunità riserva a essa, dalle risorse e dalle attese, dal sostegno, dal riconoscimento e dalle domande che la città nelle sue diverse componenti, a partire dalle famiglie, dal mondo delle imprese, dalle istituzioni pubbliche, dall’università e dalle altre agenzie culturali, riversa su di essa.

E allora mi chiedo, che tipo di comunità è quella che accetta, anzi giustifica che una squadra di polizia antidroga entri in una classe, interrompendo la lezione per annusare gli studenti e stanarli nel caso in cui portino in tasca una canna?

Non vedo nessuna forma di educazione in una scena così violenta se non quella della pubblica gogna, che, oltre  a sporcare la fedina penale a un ragazzo, lo allontanerà dal concetto di giustizia innescando meccanismi devianti.

Siamo davvero una società malata. Raccogliamo i frutti del troppo amore, li mastichiamo e poi sputiamo proprio sui piatti in cui abbiamo appena mangiato.

Noi genitori viviamo costantemente sotto processo. Non siamo mai abbastanza, o siamo troppo o troppo poco, visibilmente in deficit di autorità, specularmente alle istituzioni scolastiche e alla “deregulation” dei modelli educativi sani, sociali, culturali e politici. Gridiamo agli scandali ma poi li giustifichiamo o ce ne dimentichiamo.

Ma davvero pensiamo che per trasmettere i valori civili, la differenza tra il bene e il male, la vita, con i suoi pericoli e le sue bellezze, ci sia bisogno di far entrare in una scuola delle squadre antidroga?

Davvero crediamo che reprimere sia meglio che insegnare a capire, a comprendere?

Mi sto perdendo.

Da una parte vedo genitori che lasciano correre troppo, non mettono limiti, scarseggiano di no e permettono più del dovuto, disposti a giustificare le malefatte dei politici, disposti a derogare alle cose piccole in cambio, magari, di piccoli favori, di piccoli vantaggi. Magari neanche se ne rendono conto che non pagando le tasse, o chiedendo un piacere per se stessi, contribuiscono a trasmettere modelli sbagliati. Che evadere il fisco non significa essere più furbi degli altri, ma semplicemente più delinquenti e che così facendo contribuiscono a livellare i servizi, a rendere la società meno civile e culturalmente arretrata. Dall’altro, poi, applaudono operazioni dittatoriali.

Qualcuno si sentirà anche sollevato sul fatto che, sempre magari, ci ha pensato la polizia a dargli una bella lezione. Lezione che, invece, è compito di un genitore dare.

C’è una contraddizione alla base che la dice lunga su quanto costi, emotivamente e personalmente educare.
 

Non so come la pensiate voi, ma a me, certe incursioni ricordano tanto i pestaggi da macelleria messicana avvenuti nella scuola Diaz.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10 commenti:

  1. Io sulla "droga" (che poi tante cose sono droga se ci si pensa bene, solo che alcune sono legali e magari rovinano la vita molto più di quelle ufficiali) la penso in un certo modo, e spero di educare la mia bimba alla scelta e all'uso consapevole piuttosto che vietare tout court.
    Ammiro quell'insegnante.

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    1. Vietare senza comprendere comporta il reiterarsi di certe azioni
      Spero di saper educare mio fuglio alla scelta anche io.

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  2. condivido ogni singola lettera, di ogni singola parola, di ogni singola riga.

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  3. Io invece non condivido il tuo punto di vista, ma capisco perfettamente quello che vuoi dire e lo rispetto moltissimo.
    Semplicemente a volte controllare fuori (se penso a come era il mio liceo, ad esmepio) diventa impossibile, perche' i ragazzi "si danno", soprattutto quelli che hanno in tasta magari non una canna, ma eroina o cocaina da spacciare. Insomma, quello che tu dici e' bellissimo, ma in una societa' ideale. A cui spero si potra' arrivare.

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    1. Certamente un liceo di provincia non e' comw uno di una grande citta' o di periferia. Come tu mi insegni la vendita di droga c' e' sempre stata davanti alle scuole, non credo possa combattersi con azioni come quelle da me descritte. Effettivamente ci spero ancora in una societa migliore. Ben venga il confronto, sempre.

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  4. Condivido Raffaella il tuo pensiero e lo appoggio in ogni virgola però purtroppo, credimi, per chi non fa questo tipo di lavoro non sono sempre condivisibili certi metodi e questo è uno di quelli. Poi che in situazione possa essersi degenerazione come nella scuola Diaz è un altro conto. L'eccesso è esasperazione, sempre e ovunque

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  5. Capisco cosa intendi però penso che se un ragazzo va al liceo con la droga in tasca, che sia una canna o qualche cosa di più, sia perché i genitori o non sanno e non sapranno mai senza azioni di questo tipo o non vogliono saperne e allora forse di fronte ad accuse della polizia saranno costretti ad affrontare il discorso.
    Chi spaccia o consuma droga non fa male solo a se stesso ma anche a chi gli sta. Intorno ed alla società, perché da un esempio pessimo e spesso ha un costo sociale elevato.
    Fuori dalla scuola e' molto difficile fermare qualcuno. Perciò se questo e' l'unico modo, io credo che si possa accettare. Nel mio liceo di provincia, e' capitato e chi e' stato beccato ne ha pagato le conseguenze in termini di immagine: per quasi tutti è servito a raddrizzare il tiro. Certo, la violenza e gli eccessi sono un'altra cosa, anche se spesso si dimentica la frustrazione e la fatica di chi è dalla parte dell'autorità, sottolineando solo le mancanze e non i meriti.

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  6. Mi piace molto la conclusione. Sono un insegnante in pensione dopo 36 anni di insegnamento ed anche un padre!
    Se entri nel mio blog troverai che ho scritto cose molto più severe sullo stesso o su argomenti connessi.

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    1. Grazie di essere qui Barbato. Non riesco ad entrare nel tuo blog. Ho il profilo bloccato.

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